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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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William Shakespeare Il Mercante di Venezia
William Shakespeare

Il Mercante di Venezia



L’interessante articolo di Nicola Fano su “Il Mercante di Venezia” di Shakespeare e le sue vicissitudini attraverso la censura fascista (il Foglio, 28 dicembre 2004) stimola alcune riflessioni che possono essere di qualche interesse in un periodo in cui si fa gran parlare delle “radici giudaico-cristiane” dell’Europa e poi accade spesso che il primo termine cada, o vada e venga come un “optional”, senza che si sappia alla fin fine di cosa si tratti; e senza che si capisca in che cosa sia consistito l’apporto ebraico alla formazione dell’identità europea, che cosa di vivo e dinamico abbia effettivamente rappresentato. Sarebbe un triste travisamento dei fatti storici se questo apporto non venisse concepito altro che in due sensi: come una presenza irriducibile, immobile e statica, nella sua separatezza dall’ambiente circostante; e come l’immagine vivente di una delle più grandi forme di intolleranza della storia, l’antisemitismo. Se l’apporto ebraico alle “radici” fosse riducibile soltanto a questi due aspetti, esso non evocherebbe altro che l’idea di un ingombro e di una colpa. E’ per questo che il riferimento all’antisemitismo deve essere evocato a ragion veduta e non quando rischia paradossalmente di oscurare proprio alcuni fondamentali della presenza nella storia culturale dell’Europa. E’ evidente che qui ci riferiamo all’“antisemitismo di Shakespeare”, tradizionalmente identificato con il contenuto de “Il Mercante di Venezia”. Certo, a una prima lettura, il protagonista della storia, l’ebreo Shylock è soltanto un malvagio, colui che concepisce la perversa idea di prestare denaro a un cristiano prendendo come pegno una libbra di carne e che esige ciò che gli è dovuto con implacabile e disumana durezza. Già una seconda lettura permette di comprendere come Shakespeare non si muova affatto all’interno dei consueti stereotipi antisemiti, perché l’attitudine crudele di Shylock è spiegata con i torti che egli ha subito e che hanno indurito il suo cuore, ed anzi si può dire che la parte finale dell’opera contenga una vera e propria filippica contro le crudeltà di cui il mondo cristiano si è reso colpevole nei confronti degli ebrei. Ma così siamo ancora fermi a una lettura superficiale. In un denso e profondo articolo di venticinque anni fa, la grande storica inglese Frances A. Yates esaminò l’opera di Shakespeare sotto un profilo simbolico più profondo e che risalta chiaramente alla luce del contesto culturale dell’epoca. Secondo Yates, Shakespeare utilizzò materiali stereotipati (convenzionali, direbbe Fano) per costruire una sofisticata allegoria sul tema della Legge. Non si tratta però della solita consunta contrapposizione fra la dura legge ebraica dell’Antico Testamento e la legge dell’amore del messaggio cristiano, come suggerirebbe una lettura superficiale del brano in cui Porzia chiede che la clemenza temperi la giustizia. Queste interpretazioni trascurano i profondi influssi che avevano su Shakespeare i temi della Kabbalah, che gli erano pervenuti attraverso il circolo del cabbalista cristiano John Dee, nel quale avevano largo corso le teorie sull’armonia universale del frate veneziano Francesco Giorgi, a loro volta ispirate a una filosofia giudaizzante in cui i temi kabbalistici venivano usati per corroborare la teologia cristiana, fino a vere e proprie forme di sincretismo religioso. Questi ambienti e personaggi erano fortemente influenzati dal misticismo ebraico esportato in tutta Europa dalla Spagna, dopo l’espulsione degli ebrei alla fine del Quattrocento. Daniel Banes, in un articolo pubblicato anch’esso venticinque anni fa (“The provocative Merchant of Venice”) ha tenuto conto in modo puntuale degli influssi del “De harmonia mundi” di Francesco Giorgi e si è spinto fino a ricostruire lo schema kabbalistico che sarebbe l’architrave nascosta del “Mercante di Venezia”: lungi dall’essere una contrapposizione fra legge ebraica e amore cristiano, la dialettica sul tema della Legge sarebbe interna a una rappresentazione di tipo kabbalistico delle emanazioni divine – le cosiddette Sefiròth – la quale era largamente diffusa negli ambienti dei cabbalisti cristiani. Shylock rappresenterebbe la sefirà “Ghevurah” o “severità di giudizio”, Antonio la sefirà “Hesed” o “tenerezza amorosa” e Porzia sarebbe

“Tifereth” o “bellezza-clemenza” che tenta di conciliare le prime due. Pertanto, secondo Barnes, il tentativo di Porzia di convertire Shylock alla clemenza sarebbe condotto all’interno di un’argomentazione di tipo ebraico kabbalistico.Non meno interessanti sono le osservazioni di Yates concernenti il peso che ha il tema dell’armonia universale, inteso in senso neoplatonico e kabbalistico, che pervade l’opera e che ricorre in molti dialoghi. Così, quando Lorenzo proclama: “Siedi Gessica, guarda come il pavimento del cielo è tutto costellato di stateri d’oro scintillanti; e neanche uno, neanche il più piccino, di questi globi, che non percorra l’orbita sua cantando come un angelo in coro coi cherubini dagli occhi novelli. E la stessa armonia è anche nelle anime nostre immortali…”. Ma è soprattutto la metafora dei tre scrigni tra cui debbono scegliere i corteggiatori di Porzia che attira la sua attenzione. E’ largamente accettato che i tre scrigni – d’oro, d’argento e di piombo – rappresentino le tre religioni monoteiste (come, del resto, in Boccaccio). Ed è ben noto che, secondo la tradizione di cui si fa interprete Francesco Giorgi, il piombo, metallo di Saturno, simboleggia la religione ebraica. Bassanio, secondo Banes, sceglie seguendo l’ammonimento biblico dei Proverbi: “Scegliete la mia dottrina e non l’argento; scegliete la sapienza più che l’oro fino, perché la sapienza è buona più delle perle e nessun tesoro l’uguaglia”: scegliendo lo scrigno di piombo Bassanio opta per la legge ebraica e così

conquista la principessa cristiana Porzia. Osserva Yates: “In quest’opera, Shakespeare parrebbe muoversi fra i misteri della Sapienza- Torah e fra le personificazioni di essa nate in quella profusione di immagini e di canti religiosi d’amore con cui, nella persecuzione, gli ebrei sefarditi espressero la loro religione, messa al bando nella patria d’origine”. La conclusione più interessante che deriva da queste analisi è che “Il Mercante di Venezia” non è affatto un’opera antisemita. Una conclusione che risalta ancor di più ove si confronti l’opera di Shakespeare con “L’ebreo di Malta” di Cristopher Marlowe –

che Shakespeare certamente conosceva – e in cui la figura dell’ebreo Barabba è il prototipo dell’ebreo disgustoso della letteratura antiebraica, “figura destinata a fomentare l’antisemitismo della specie più brutale”. Anzi, secondo Yates, “Il Mercante di Venezia” è una sorta di risposta a Marlowe: gli spettatori del prima “udivano l’armonia universale echeggiata dall’opera del frate cabbalista di Venezia, mentre quelli de “L’ebreo di Malta” erano portati a trasformarsi in folle antisemite”. A differenza di Shakespeare, Marlowe proponeva un testo di violenta propaganda in cui, con singolare modernità, proponeva la figura dell’ebreo avido e dominatore con una singolare anticipazione dei temi dei “Protocolli dei Savi di Sion”: era la reazione aspra di quella parte dell’Europa animata da intransigenza e oscurantismo contro la cultura rinascimentale e la sua straordinaria capacità di realizzare grandi sintesi culturali e spirituali. Era quella parte dell’Europa troppe volte pronta – dice Yates – a prenderela direzione sbagliata e a “dissipare le risorse spirituali che avrebbero potuto essere usate in modo costruttivo”. Sono analisi dotte, e che qui abbiamo riferito in una forma semplicistica ma che forse può bastare a dare l’idea di interazioni molto complesse e straordinariamente ricche e che non sono riducibili agli stereotipi di contrapposizioni banali. E le analisi dotte possono fare assai più di tante chiacchiere politico - moralistiche. Per esempio, possono farci scorgere nel pensiero di una delle più grandi menti della storia europea non la piatta ripetizione di slogan intolleranti ma il vivo intreccio delle tanto citate spesso a sproposito o senza sapere bene di cosa si parli) radici giudaico-cristiane.



Giorgio Israel

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