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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Natan Sharansky, The Case for Democracy
Natan Sharansky, The Case for Democracy



«Mi scusi se non ho ancora finito di leggere il suo libro, sono arrivato solo a pagina 210». Così George W. Bush, neanche dieci giorni dopo la rielezione, ha accolto nello Studio Ovale l'ex refusnik sovietico ed oggi ministro israeliano, Natan Sharansky. L'attenzione del presidente degli Stati Uniti per il volume The Case for Democracy (Public Affairs, New York, 304 pagine) si spiega con il fatto che afferma la necessità di trarre le conseguenze politiche della guerra al terrore dando vita ad una «nuova istituzione internazionale» ovvero ad una Comunità delle Nazioni Libere unite dalla volontà di adoperare il «potere della libertà per rovesciare le tirannie e sconfiggere il terrorismo».

Con l'amministrazione americana impegnata a preparare una proposta di «trasformazione delle relazioni internazionali» - espressione usata dal Presidente nel recente discorso di Halifax, in Canada - per presentare agli alleati una versione del multilateralismo adatta a confrontarsi con i nuovi pericoli del XXI secolo, il libro di Sharansky offre un possibile spunto di lavoro. Se nel mondo del post 11 settembre le minacce alla sicurezza globale vengono dal terrorismo dell'Islam radicale e dalla proliferazione di armi non convenzionali, in nazioni come l'Iran e la Corea del Nord, «per proteggere e promuovere la democrazia nel mondo serve una coalizione di libere nazioni - si legge a pagina 279 - che isolerà e sanzionerà le nazioni tiranniche abbracciando e sostenendo i popoli che esse opprimono».

L'esempio a cui Sharansky si richiama è quello del presidente americano Ronald Reagan, a cui deve la propria liberazione dal gulag sovietico nel 1986 dopo nove anni di detenzione, che pose le basi per la dissoluzione dell'Urss grazie ad una pressione esterna iniziata con la definizione di «Impero del Male» e culminata con il programma militare per lo «Scudo stellare» che fece capire al Cremlino di non poter vincere la gara degli armamenti. Sharansky rilegge gli ultimi quindici anni della Guerra Fredda per spiegare come le democrazie, unendosi e «chiamando il regno della paura con il proprio nome», possano far crollare le dittature senza il riscorso alla forza: nella Conferenza di Helsinki l'Occidente fece sottoscrivere all'Urss il rispetto dei diritti umani al di là della Cortina di Ferro, al Congresso di Washington il senatore democratico Henry Jackson fece appprovare l'emendamento che legava la liberalizzazione degli scambi con l'Urss alla libertà di emigrazione per gli ebrei e infine Reagan denunciò apertamente il carattere malefico del comunismo sovietico. Ognuna di queste tappe diede fiducia e forza al dissenso, alle voci di Andrei Sakharov e di Andrei Amalrik ed alle speranze dei detenuti dell'Arcipelago Gulag come Sharanky, che si sussurravano l'un l'altro le frasi di Reagan.

La morsa fatta di pressione esterna delle democrazie e di rafforzamento del dissenso interno, suggerisce Sharansky, può essere fatale ad ogni dittatura «regno della paura» come lo è stato nei confronti dell'Urss perché ogni dispotismo ha il suo tallone d'Achille nel fatto di «aver bisogno dei frutti dello sviluppo tecnologico occidentale» per poter sopravvivere. Al fine di ottenere ciò che non riusciva a produrre, l'Urss minacciava le democrazie con l'arma nucleare ed «oggi nazioni come l'Arabia Saudita fanno lo stesso con il petrolio».

Sharansky chiede alle nazioni libere di sottrarsi a questo ricatto che serve solo a prolungare la vita delle dittature, scegliendo piuttosto la via della «chiarezza morale» che fu di Reagan quando senza perifrasi disse rivolgendosi a Gorbaciov: «Fai cadere il Muro di Berlino». L'esistenza nel mondo arabo e musulmano di intellettuali dissidenti - elencati uno ad uno nel testo - convince l'autore sulla possibilità di ricreare oggi quell'alleanza fra «sostenitori del rispetto dei diritti umani e falchi della sicurezza» che mise alle corde il Cremlino. Nel confronto con le dittature la strada errata è quella dei compromessi e del pragmatismo che celano «assenza di speranza» nel futuro.

Fra gli esempi di errori da non ripetere Sharansky ricorda l'opposizione dell'ex Segretario di Stato Henry Kissinger all'emendamento Jackson «perché riteneva che potesse nuocere alla distensione Est-Ovest», la debolezza con cui il presidente Jimmy Carter reagì all'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Urss di Leonid Breznev e la velocità con cui il negoziatore israeliano Yossi Beilin negoziò gli accordi segreti di Oslo con l'Olp dando per scontato che il futuro Stato di Palestina sarebbe divenuto una dittatura nelle mani di Yasser Arafat, pensando che proprio questo avrebbe garantito la pace.

La tesi del libro è che in Medio Oriente vale la regola generale: pace e stabilità seguono l'avvento della democrazia e dunque lo Stato di Palestina potrà nascere «dopo le riforme» e non prima, come invece suggerisce il testo del piano della Road Map.

Nelle pagine sulla crisi arabo-israeliana l'autore chiede a Bush di restare fedele al discorso pronunciato il 24 giugno del 2002 nel giardino delle rose della Casa Bianca, quando si rivolse ai palestinesi spiegando che la strada verso l'indipendenza passa attraverso le riforme democratiche e una dura lotta al terrorismo. Il Medio Oriente è per Sharansky solo un tassello del nascituro ordine internazionale, ciò che conta è l'impegno delle democrazie ad unirsi nella Comunità delle Nazioni Libere, una prospettiva possibile solo con l'impegno in prima persona del presidente degli Stati Uniti.

Le ultime righe del volume contengono un vero e proprio appello a Bush affinché prenda l'iniziativa: «Per avere successo lo sforzo di espandere la libertà nel mondo deve essere ispirato e guidato dagli Stati Uniti, nel XX secolo l'America ha provato di avere la chiarezza morale ed il coraggio per sconfiggere il Male, richiamandosi a questo esempio le democrazie del mondo possono sconfiggere la tirannia che ci minaccia oggi e quelle che ci minacceranno domani ed al fine di riuscirsi dobbiamo credere nel fatto che non solo tutti gli esseri umani sono stati creati uguali ma che anche tutti i popoli sono uguali». Hanno quindi pari diritto a vivere nella libertà.



Maurizio Molinari

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