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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Irshad Manji - Quando abbiamo smesso di pensare?
Irshad Manji

"QUANDO ABBIAMO SMESSO DI PENSARE?"

Guanda, 249 pagine, 12,50 euro



L'ugandese e refusenik musulmana Irshad Manji non cammina nel selciato della

santificazione umanitaria, mancia a Caronte di molti intellettuali. Non

conosce i miasmi di una menzogna e di una dissimulazione mascherate da

virtù. Come lesbica si indigna con i filocastristi Gabriel Garcia Marquez,

Adolfo Perez Esquivel e Nadine Gordimer, gli zapateristi che in Europa

lottano per il matrimonio gay ma che ai Tropici favoleggiano

sull'affascinante assassino cubano di dimenticati omosessuali. Manji non può

permettersi l'ideologismo di Dario Fo, che due giorni dopo l'11 settembre ha

scritto che 20mila morti a New York erano una cimice rispetto ai milioni di

poveri uccisi dal capitalismo. Manji non è rimasta in silenzio come le due

neo- premi Nobel, Maathai e Jelinek, alla notizia diffusa dal Dipartimento

di Stato americano secondo cui i paramilitari di Uday Hussein decapitarono

in pubblico più di 200 donne. Perché sa che in Iraq decapitazioni e

sequestri non sono il prodotto della guerra, c'erano già prima. Manji non sa

cosa sia il relativismo inquisitorio di Massimo Fini, che vorrebbe che

"tutte le Safiye del mondo" venissero lasciate in pace, cioè libere di

morire. Lei sa cos'è la libertà e il prezzo che occorre per averla, per poi

mantenerla. Non conosce il letto caldo delle femministe americane alla

Miriam Cooke, la docente della Duke University che ha ribrezzo per la

liberazione delle donne afgane, quelle che fiere sono andate in massa a

votare, la Cooke che dice "molto meglio Wafa Idris", la prima kamikaze

palestinese. Irshad Manji è una che di fronte al terrorismo islamista che

decapita e mette bombe si è posta con coraggio e indignazione, che appena

può riversa su carta il suo disgusto per i volantini che l'Associazione

della Gioventù Islamica distribuisce nei campus americani, le alcove, se non

le fogne, di quella che National Review chiama "educazione saudita". In

questo pamphlet racconta di come i musulmani dell'Africa orientale trattino

da schiavi i neri e di tutte le donne pakistane violentate come

compensazione di un torto subito dal clan. Per Manji la "libertà che

l'Occidente mi accordava mi consentiva di valutare la mia religione sotto

una luce inconcepibile nel microcosmo della madrasa". Se fosse cresciuta

nell'Islam sarebbe diventata un'atea convinta: "Se invece ho capito perché

non volevo rinunciare all'Islam, è stato grazie al fatto di vivere in questa

parte del mondo". E' una favolosa anomalia da salutare con ammirazione una

musulmana che cita i saggi di Bernard Lewis, amica di Yossi Klein Valevi e

grata all'ebraismo per avergli trasmesso "il senso della nostra vita terrena

e l'infinitezza di quella ultraterrena", grata allo Stato d'Israele, "il

paese in cui convivono partiti politici di matrice chassidica e l'unica

Giornata dell'orgoglio gay di tutto il Medio Oriente". Secondo Manji "noi

islamici non siamo stati gli unici a doverci accontentare delle briciole

distribuite dalle potenze coloniali: anche gli ebrei sono stati traditi". E

parla degli 850mila ebrei, i profughi dimenticati, che nel 1948 furono

cacciati dai paesi arabi d'origine. E' a Ramallah che Manji ha capito cosa

ci fanno i palestinesi con i soldi solidali della comunità internazionale:

"La scritta 'Finanziato dalla Commissione europea' campeggia su molti

edifici, quasi tutti in rovina e sprangati da assi". Cita un passo della

Haggadah per dimostrare l'umanità del monoteismo sinaitico, in cui Dio

punisce gli angeli che esultano quando gli egiziani affogano nel Mar Rosso:

"Sono anch'essi figli miei". E scagliandosi contro "la banda pistola- e-

Corano", Manji ricorda con fierezza e gratitudine che George Bush, in visita

in Arabia Saudita, si trattenne per rispetto dal pronunciare la preghiera

per la festa del Ringraziamento. "Impariamo dai Buddha della valle di

Bamyan: restarsene seduti a pregare in silenzio per la pace non basta per

sconfiggere l'Islam del deserto". Pensa che la jahiliyah, la tenebra

coranica che secondo la mitologia islamica regnava prima del Profeta, ha

continuato a rabbuiare il mondo anche dopo. Perché come scrisse Victor Hugo

nel 1857, "morendo, Cristo lascia quattro chiodi, Maometto sette spade".

Pensando alle marionette sterminatrici che l'hanno perseguitata, Manji si

ricorda di Al- Mamum, il califfo che esaltava il libero arbitrio ma frustava

chi non era d'accordo con la sua versione dell'Islam: "Vi pare che da allora

ad oggi sia cambiato molto?". Con lei diciamo di no.



Giulio Meotti

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