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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Alain Gresh - L’Islam, la Republique et le monde
Alain Gresh

L'Islam, la Republique et le monde

Fayard, 439 pp.,20 euro



A leggere l’ultimo libro di Alain Gresh, redattore capo del “Monde Diplomatique” ed esperto di medio oriente (“L’Islam, la Republique et le monde”, Fayard, 439 pp., 20 euro) in occidente siamo tutti islamofobi. L’autore è un giornalista egiziano di cultura francese, nato da genitori militanti comunisti, madre ebrea russa e padre egiziano antisionista. La Francia altermondialista ha salutato in questo saggio la capacità di smontare finalmente la tesi dell’islam come minaccia, allo stesso tempo interna ed esterna per l’occidente. Peccato, però, che gli esempi e le citazioni riportati dall’autore non solo non smontano quella tesi, ma finiscono paradossalmente per accreditarla. Vediamo le argomentazioni di Gresh, che premette che “la creazione dello Stato di Israele” sia la fonte prima di ogni problema. E’ lui a dirci che sono solo quattro, sui sessanta Stati che formano l’Organizzazione della conferenza islamica (Oci), e cioè Indonesia, Mali, Senegal e Turchia, ad avere un sistema politico democratico, mentre tutti gli altri sono caratterizzati da regimi autoritari o semiautoritari. Da questo dato di fatto, che testimonierebbe la quasi totale impermeabilità dell’islam all’idea di democrazia, Gresh desume invece che sarebbe un errore identificare i paesi a religione musulmana con forme di governo antidemocratiche, o, peggio ancora, teocratiche. E contesta la tesi di Anne-Marie Delcambre nel libro “L’islam des interdits”, secondo cui “l’integralismo non è affatto la malattia dell’islam. Esso rappresenta l’interezza dell’islam. Ne costituisce la lettura letterale, globale e totale dei testi fondanti. L’islam degli integralisti, degli islamisti, è semplicemente l’islam giuridico che coincide con la norma”. Gresh si affretta a precisare che questi paesi si limitano ad applicare la legislazione islamica solo parzialmente ed “esclusivamente nell’ambito familiare” e spiega a modo suo la sharia, come l’insieme delle prescrizioni alle quali tutti i credenti si devono conformare. Essa riguarda sia le obbligazioni culturali che le relazioni sociali (eppure Gresh nega una visione totalizzante dell’islam). In realtà, egli dimentica che la sharia, che costituisce la totalità dei precetti di Allah, comprende, in un unico complesso legame, l’insieme dei doveri religiosi, politici, sociali, familiari e privati dei fedeli. Le fonti della sharia di origine divina sono quattro: il Corano, la Sunna, la Qiyas, ovvero “deduzione per analogia”, la Igma, “consenso” degli esperti o dottori su qualsiasi questione di fede. L’approfondimento delle quattro fonti venne a costituire l’ijtihad, “sforzo intellettuale”; mugtahid è propriamente colui che si dedica a tale approfondimento e che dà la sua opinione legale (fatwa). Attraverso le quattro scuole accettate come canoniche già nel XIII secolo, una formulazione religiosa assoluta si è inserita nelle realtà storiche. I giuristi posteriori possono soltanto praticare l’imitazione (taqlid) che è, propriamente, l’adozione dei pronunciamenti o degli esempi di comportamento di altri, ritenuti autorità valide in materia di fede senza diritto di investigare sui loro motivi. Questo è il punto cruciale. Anche Gresh è costretto ad ammettere, attraverso le parole di Nadia Yassine, portavoce del movimento islamista marocchino Al-Adl walIhan, che “a considerare la caduta libera del nostro pensiero dopo l’abbandono della ijtihad, non possiamo che dare ragione a tutte le critiche, anche le più aspre. La comunità è caduta poco a poco nella notte nera del taqlid (l’imitazione cieca dei predecessori nel campo del diritto)”. Ma Gresh vuole dimostrare che “i fini del potere profetico sono molto diversi da quelli del potere politico” e conclude affermando che il potere religioso “non ha come obiettivo quello di preservare e gestire gli interessi temporali e gli affari del mondo, ma essenzialmente e prima di tutto, a preparare gli uomini alla vita eterna”. Il dato di fatto che le fonti della religione e del diritto coincidano nel mondo islamico, e siano invece nettamente separate nel mondo occidentale, arriva a essere negato da Gresh. Egli paragona il mondo islamico al mondo occidentale che sarebbe stato governato dalla stessa logica (identità delle fonti del diritto divino e delle norme giuridiche e della civile convivenza), con l’aggravante, a suo giudizio, dall’esistenza di un Papa che era allo stesso tempo un sovrano temporale. Ma il paragone non regge, perché l’elaborazione delle fonti del diritto civile e penale ha origini molto lontane nella nostra cultura, che risalgono al tempo dei greci e dei romani. Gresh inoltre non considera che anche ai tempi del Sacro romano impero, quando l’investitura dell’imperatore era avallata dalla Chiesa, le leggi che regolavano la vita sociale non promanavano dall’Antico

e dal Nuovo Testamento, ma da fonti giuridiche elaborate dall’uomo e non attribuite a Dio. Ma Gresh insiste nell’equivoco, quando afferma che “come le altre religioni monoteiste, l’islam riconosce, durante tutto il medioevo, ma spesso anche nell’era contemporanea, l’origine divina del potere”. Alla fine si chiede, senza rispondere: “La legge islamica può adattarsi al mondo moderno e alle nuove forme di separazione tra Stato e Chiesa che caratterizzano

il mondo occidentale attuale?”. Verrebbe da rispondergli con le parole pronunciate il 29 marzo 1883, alla Sorbona da Ernest Renan: “L’islam è l’unione indiscernibile di spirituale e temporale, è il regno del dogma, è la catena più pesante che l’umanità abbia mai portato”.

Ilaria Colombo

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