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La Stampa Rassegna Stampa
12.03.2020 Ecco l'antisemitismo dietro l'antisionismo
Analisi di Michael Walzer

Testata: La Stampa
Data: 12 marzo 2020
Pagina: 22
Autore: Michael Walzer
Titolo: «Dietro gli argomenti degli antisionisti i pregiudizi dell'antisemitismo»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/03/2020, a pag.22, con il titolo "Dietro gli argomenti degli antisionisti i pregiudizi dell'antisemitismo" l'analisi di Michael Walzer.

L'analisi di Michael Waltzer è viziata, nel secondo paragrafo, dalla considerazione falsa secondo cui "Israele opprime i palestinesi". Lo Stato ebraico è l'unico Paese che concede pieni diritti, in Medio Oriente, a tutti i cittadini, l'oppressione è una favola dei suoi detrattori e demonizzatori.

Ecco l'articolo:

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Michael Walzer

Le risposte più comuni sono le seguenti. In primo luogo, la creazione dello Stato d'Israele ha richiesto lo spostamento di 700 mila palestinesi. Israele è uno Stato di «occupazione coloniale» – come pressappoco tutti gli Stati, se risaliamo sufficientemente lontano nel passato; ma lasciamo da parte questo ragionamento, la storia recente è più istruttiva. Non c'è stato spostamento di arabi palestinesi negli anni Venti e Trenta del Novecento: malgrado la colonizzazione sionista, la popolazione araba è aumentata grazie alla natalità ma anche grazie all'immigrazione, essenzialmente dalla Siria (nel 1922, il primo censimento britannico contava 660.267 arabi; erano 1.068.433 nel 1940). E neppure vi è stato spostamento durante la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui l'immigrazione ebraica era meno forte. La creazione dello Stato di Israele è stata proclamata nel 1947 dapprima dall'Onu, in seguito a Tel Aviv nel 1948, prima dell'inizio dello spostamento su grande scala: l'idea secondo cui lo Stato «richiedeva» uno spostamento non può dunque essere corretta. È l'invasione del nuovo Stato da parte di cinque eserciti arabi che ha costretto alla fuga un gran numero di arabi palestinesi (gli ebrei non fuggivano, non avevano un luogo dove andare) da un lato, all'espulsione di molti altri abitanti (gli ebrei non sono stati espulsi perché gli eserciti arabi hanno perso la guerra) dall'altro.
Il dibattito sul rapporto tra coloro che sono fuggiti e coloro che sono stati espulsi è ancora vivo; le cifre sono importanti in entrambi i casi. Resta il fatto che il dibattito non esisterebbe se la guerra non fosse avvenuta, e vi sarebbero ben pochi rifugiati oggi nei campi. La Nakba è una tragedia provocata da due attori, da due movimenti politici, e dai soldati delle due parti. Cosa ne è delle fughe e delle espulsioni che avvennero altrove – in particolare nel corso della creazione degli Stati moderni turco o pakistano? È curioso che gli autori di sinistra non contestino la legittimità di questi Stati, anche quando criticano, come è giusto, le politiche dei loro governi.

Il secondo elemento spesso invocato per giustificare l'antisionismo è questo: Israele opprime i palestinesi, in Israele e nella Cisgiordania occupata. Questo è vero e i miei amici sionisti, in Israele, si mobilitano da anni per l'uguaglianza di tutti nello Stato e contro l'occupazione e il trasferimento dei coloni. Ogni critica severa del governo attuale mi sembra giustificata, e più è severa meglio è. Le critiche di questo tipo non hanno niente a che vedere con l'antisionismo o l'antisemitismo. Si tratta di politiche governative, e i governi non fanno altro che governare gli Stati, non li incarnano. I governi vanno e vengono – almeno è quel che speriamo – mentre gli Stati si iscrivono nella durata per proteggere la vita comune dei loro cittadini, degli uomini e delle donne. Di conseguenza, criticare il governo d'Israele non dovrebbe comportare un'opposizione alla sua esistenza. È stato necessario opporsi con fermezza alla brutalità dei francesi in Algeria, ma non ricordo nessuna voce che mettesse in discussione l'esistenza dello Stato francese. Il trattamento brutale dei musulmani nell'Ovest della Cina invoca la stessa fermezza, ma nessuno chiede l'abolizione dello Stato cinese (anche se, in pratica se non in teoria, la Cina è uno Stato-nazione dell'etnia han). Alcuni, a sinistra, affermano che i lunghi anni di occupazione e il nazionalismo di destra del governo Netanyahu rivelano l'«essenza stessa» dello Stato ebraico. Questo argomento dovrebbe suonare strano alle orecchie di tutte quelle persone di sinistra che hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti «essenzialisti». La lunga storia dell'interventismo degli Stati Uniti in America Centrale rivela l'«essenza stessa» degli Stati Uniti? Forse sono gli oppositori all'intervento e all'occupazione a essere più «essenziali». Comunque sia, uno Stato ha davvero un'«essenza»? Oggi molti a sinistra approvano il nazionalismo palestinese senza preoccuparsi del suo carattere «essenziale» e senza riflettere sul programma dei nazionalismi che chiedono, spesso esplicitamente, il grande tutto: «Dal fiume al mare».

Vi sono oggi, al governo d'Israele, ebrei sionisti che chiedono il grande tutto con analogo fervore. La sinistra dovrebbe dunque opporsi a entrambe le rivendicazioni con la stessa determinazione. Quanti, a sinistra, reclamano «uno Stato», con pari diritti per gli ebrei e i palestinesi, direbbero senza dubbio che fanno esattamente questo, perché il loro programma sembra tradurre un disprezzo fermo del nazionalismo e dello Stato-nazione – fermo, sì, ma applicato a un solo caso. In realtà, «uno Stato» significa l'eliminazione di uno Stato: lo Stato ebraico esistente. In che modo i partigiani di «uno Stato» hanno in mente di realizzare questo programma? Qual è il loro piano per distruggere lo Stato ebraico e il movimento nazionale che gli ha dato nascita? E come vedono la disfatta del nazionalismo palestinese? A cosa assomiglierebbe questo nuovo Stato? Chi deciderebbe le politiche d'immigrazione (è la questione che ha fatto fallire il bi-nazionalismo immediatamente prima e dopo la Seconda guerra mondiale)? Infine, ed è l'esito più probabile, cosa accadrebbe se il nuovo Stato somigliasse al Libano di oggi? La storia recente del Medio Oriente e quelle di Israele e della Palestina mostrano che la coesistenza pacifica è una pia illusione. Anzi, nemmeno un'illusione. Se si vuole permettere ai due movimenti nazionali di ottenere (o di mantenere) la sovranità cui aspirano, è sicuramente opportuno aggiungere uno Stato piuttosto che sottrarne uno all'equazione. La soluzione dei due Stati è forse anch'essa un'illusione – esiste in effetti dai due lati uno schieramento significativo di forze che vi si oppongono – ma l'idea è più realistica. Sappiamo, infatti, come creare degli Stati-nazione; abbiamo una lunga esperienza in materia. Non sappiamo come creare la comunità politica ideale che i partigiani dello Stato unico dicono di desiderare, ma non vogliamo – e non dovremmo volere – il genere di Stato che essi creerebbero, se lo potessero. Edificare Stati-nazione, questa è la politica che la sinistra ha difeso nel periodo post-coloniale. La Jugoslavia è l'eccezione degna di nota: la maggioranza delle persone di sinistra si sono opposte alla creazione di sette nuovi Stati-nazione, preferendo a essi il regime tirannico che li aveva un tempo mantenuti uniti. E questa è un'ulteriore incoerenza: se l'alternativa alla liberazione nazionale è la tirannia, la sinistra dovrebbe optare, e in genere ha optato, per la liberazione. È la scelta giusta, perché sappiamo che le nazioni hanno bisogno di Stati, non fosse altro che per proteggerle dall'oppressione straniera. Ne è prova la storia degli ebrei, o degli armeni, dei curdi, dei kosovari e dei palestinesi. Le inchieste mostrano che, in ognuna di queste nazioni, larghe maggioranze desiderano uno Stato per sé stesse. E se gli altri lo vogliono, perché non gli ebrei?

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