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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Norman Manea - Il ritorno dell'huligano
Norman Manea - Il ritorno dell'huligano - Il Saggiatore, 366 pp., euro 19



Nonostante l'impazienza non consentisse altri rinvii e la lingua del ghetto gemesse e reclamasse ancora, viva come un tempo, Norman Manea, docente di letteratura al Bard College, ha deciso di ripercorrere il suo passato d'ebreo deportato, cittadino della Romania comunista da cui scappa nel 1986, ed esule negli Stati Uniti, dopo l'omicidio del professor Culianu, studioso del periodo

legionario di Mircea Eliade. "Alla fine, ero partito, ma non dalla lingua nella

quale abitavo, bensì dal paese in cui non potevo respirare". Nell'ottobre del 1941 ebbe inizio la carneficina di Antonescu, e la famiglia di Manea, come quella di Paul Celan, venne travolta nell'inferno della Transnistria: "Lo sbarco notturno, i colpi d'arma da fuoco, le grida, le rapine, le baionette, i morti, il fiume, il ponte, il freddo, la fame, la paura, i cadaveri: la lunga notte dell'Iniziazione". Nella Trans-Tristia la morte era sempre pronta a offrire i propri servigi, "sovrana e democratica, lavora con zelo, non-stop, annoiata, ma, oh sì, efficiente". Quando, nel 1947, Manea fece ritorno a Suceava, la fiaba aveva cambiato i suoi travestimenti: si chiamavano

Festa del Partito, Problema Agrario, Situazione Internazionale, Guerra di Corea,

Pericolo Titoista, Vigilanza, la frase di Marx, il riso di Danton. L'ingegnere che alla "Felicità obbligatoria nella colonia penale della Menzogna" non aveva mai creduto, escluso anche da quello che Bachtin definì il "coro popolare che ride", trovò nei libri un rifugio vitale, "interlocutori invisibili, il

nostro dialogo rinviava la morte". Finì così con l'"uscire dalla fila degli assassini e osservare i fatti", come voleva Franz Kafka. Le sue descrizioni della nomenklatura comunista assomigliano al racconto del processo Jarndyce in "Casa desolata" di Dickens, alle caricature di Daumier, piene di giudici e

giurati che russano, e alla dea della Giustizia con il volto della Caccia, nel dipinto di Titorelli in Kafka. Manea capì subito che il gulag di Periprava, la Geenna della Polvere con il suo "formicaio dei prigionieri, insetti minuscoli, di argilla", sarebbe stato il futuro della Romania socialista. Che deve molto,

forse tutto, a Franz Kafka, Manea lo ha spiegato in una lunga intervista alla Partisan Review. Lui aveva previsto tutto, anche che gli antisemiti "(gli ebrei) li affogano nella minestra e li squartano mentre trinciano l'arrosto",

e nel fuoco finirono i suoi manoscritti, sequestrati dai nazisti nelle case dell'amico Max Brod. Se Manea è il postfatore, Kafka è il corvo della modernità, visto che, secondo Harold Bloom, il suo cognome deriva dal ceco 'kavka', corvo, in latino Gracchus (e "Il cacciatore Gracchus" s'intitola un suo racconto). Quando gli chiesero cosa avesse in comune con gli ebrei, rispose: "Non ho, si può dire, niente in comune con me". Vorrebbero entrambi, ma non riescono a essere sionisti: Manea affascinato da Jabotinskij, Kafka che nel 1917 disse di non essere riuscito "ad agguantare l'ultimo lembo del mantello della preghiera ebraica che s'invola, come i sionisti". E se per Kafka devi "ritrovare te stesso nella tomba di un albergo", in Manea il passato remoto del verbo essere implica la realtà della morte e le scarpe sollevano ancora la polvere della Transnistria. "Sono un ricordato diventato vivo", amava dire Kafka, per il quale la storia era "l'attimo tra due passi di un viandante".

Come nella "Colonia penale", dove la macchina di stampa funziona da strumento

di tortura, in Manea lo scrivere è uno strazio. Si avverte l'esilio eterno d'Ovidio, l'odore dello sciovinismo isterico di Kraus, l'insofferenza per la parola mondana dell'"Uomo difficile" di Hoffmansthal. In una prosa

brunita e difficile, in un ritmo anapestico, Manea canta il contro-amore e un'intimità lontana, il passato che rimbalza nel presente, l'"eco scheggiata che s'oscura" di Celan, i "grandi venti da sottoterra" del cacciatore Gracchus. "Il ritorno dell'Huligano" è messaggero di una lezione semplicissima: "La vita usurpa le nostre illusioni di perfezione e il nostro orgoglio d'unicità". E' la vita secondo il cappellano del "Processo": "Il tribunale non vuole niente da lei. La riceve quando entra e la congeda quando esce". (gm)

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