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George Mosse - Di fronte alla storia Recensione da Il Foglio del 29-06-04 Oh Germania, per te devo marciare. Queste parole musicate da Gustav Mahler potrebbero fare da epitaffio alla prima parte della vita di George Mosse, raccontata nella sua splendida autobiografia ("Di fronte alla storia", Laterza, 288 pagine, 24 euro). Prima, cioè, che partisse per il versante svizzero del lago di Costanza, e che Goering si occupasse dell'"arianizzazione" dell'azienda del padre, proprietario del Berliner Tageblatt, il più importante foglio liberale del paese (Mosse racconta che Suo nonno litigò con la spartachista Rosa Luxemburg, che voleva impedire l'uscita del giornale). Quadri di Rubens e Böcklin alle pareti di casa, benefattori delle campane alla chiesa del loro villaggio, un'automobile di famiglia finita nella scenografia di Metropolis di Lang, i Mosse incarnavano l'ideale di un milieu colto e fedele al Deutschum. Erano il prototipo degli "ebrei con la cravatta" descritti da Steven E. Aschheim, per i quali l'ebraicità aveva a che fare con lo stile di vita, e il rituale era un richiamo all'identità. Heinrich Mann, nel 1934, aveva però previsto che quella degli ebrei tedeschi era una "passione a senso unico destinata al fallimento". Anche nel mondo della cultura, a parte il caso di pochi illuminati come Theodor Mommsen, l'ebreo era straniero ed estraneo, che "viene oggi e rimane domani". Il padre di Mosse, che pure in Hitler vedeva un soggetto degno del settimanale comico "Ulk", capì in tempo che era indispensabile andarsene dal paese. George, durante la guerra, scrisse articoli antisionisti in cui sosteneva che niente avrebbe dovuto intralciare l'Inghilterra. Dice di non aver "mai conosciuto i disagi personali e mentali dell'esilio o sentito la mancanza del passato", ma la tigna del profugo se la porterà dietro a lungo. Evitando, per esempio, di consegnare i bagagli al check-in, perché, confessa, il paese in cui avrebbe voluto vivere era quello in cui non servono passaporti. Ebreo e gay, è stato il primo tra gli storici a studiare il nesso tra eros maschile e pensiero völkisch, la vaporosa e piacevole volgarità da birreria tedesca, la cenere umida di sigaro e la pacca sul sedere. L'arrivo nell'Università dell'Iowa, dove incontrò Robert Lowell e Kurt Lewin, non fu casuale: "Volevo essere considerato un vero americano sul lato occidentale del Missouri anziché sull'effeminato lato orientale, così vicino all'Europa". Sebbene gli piacesse "questo nazionalismo basato sul vigore e sull'irrequietezza", il genius loci del nuovo ambiente era inconsueto per un tipo come lui, quel senso di utopia perduta e di visione midwestern dell'America vestita di puritanesimo. Mosse, che fu definito un "marxista del cuore", si batté per avviare un programma di Studi ebraici e rompere la cappa della political correctness. Manca un tassello, Israele, e l'autobiografia è compiuta. Rimane affascinato dal sabra, dolce dentro e spinoso fuori, non più erede dell'"inquieto commerciante Nathan e dell'indolente Sarah". La madre continuava a non capire come potesse vivere in un ambiente esclusivamente ebraico, mentre Gershom Scholem lo rimproverava di non amare abbastanza la sua comunità. Strinse amicizia con Martin Buber e Jacob Talmon, che aveva così paura di un'invasione che "riuscivo quasi a vedere un esercito arabo che risaliva la via Chernokowsky". Gli piaceva la totale mancanza di ostentazione del mondo israeliano. Andava a trovare il presidente Shazar in una casa simile a una caserma, mentre a Ben Gurion capitava di andare a chiedere una sedia da un vicino per un capo di stato. Ma l'inscape di Mosse, il paesaggio interiore, è quello svevo e austero di Salem, non quello, trapiantato in fretta, di Gerusalemme, i vicoli armeni o la solitudine accecante del sole di mezzogiorno alla porta di Sion. Mosse era il tipo, direbbe Stefan Zweig, "le cui vie sono tracciate dall'asfalto e non dall'erba". "La mia autobiografia, mentre la scrivo, sembra contenere molte più luci che ombre, il che può forse sottrarre qualcosa al suo interesse, ma non alla mia felicità. Penso che ci sia motivo di speranza per tutti". In fondo, era questo il suo motto, "ciò che un uomo è, soltanto la storia lo dice".