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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Fiamma Nirenstein-Gli antisemiti progressisti
Fiamma Nirenstein- Gli antisemiti progressisti- Rizzoli € 18.50



Naturalmente il libro mantiene quel che lascia intendere il titolo. Il nuovo libro di Fiamma Nirenstein - come lo fu il precedente "L'Abbandono"- è una spietata e coraggiosa analisi della situazione mediorentale e delle conseguenze derivate dal terrorismo. Sotto accusa il pacifismo, l'arrendevolezza,la connivenza, la responsabilità della sinistra in merito al risorgere dell'antisemitismo. E un forte richiamo all'Occidente, ivi compresi gli ebrei della diaspora, a non non avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Perchè non si tratta più di lecite critiche a questa o a quella poltica dei governi israeliani. Ormai è chiaro, ma non a tutti purtroppo, che in gioco è la sopravvivenza dello stato stesso di Israele. E la parola che è rientrata in gioco è una sola: ANTISEMITISMO. Pronunciata finora quasi chiedendo scusa per l'ardire, bene è ora di finirla con le paure. Chi combatte Israele e ne vuole la distruzione combatte gli ebrei stessi. Ovunque siano, di qualunque stato siano cittadini. La salvezza d'Israele è la salvezza stessa della civiltà occidentale, della democrazia. Chi è contro non è altro che un antisemita.

Sia reso merito al coraggio di Fiamma Nirenstein per aver riportato in superficie, ed avergli dato grande dignità letteraria, un tema che non ce la faceva più ad emergere soffocato com'era dall'ipocrisia del perbenismo progressista. Degli antisemiti progressisti, appunto.



Quello che pubblichiamo è l'estratto scelto dalla Stampa di Torino per annunciare l'uscita del libro. Il meno poltico, il meno storico, quello che meno dà la cifra vera del libro. Non importa, noi ci auguriamo che leggendolo, i lettori della Stampa corrano in libreria per leggersi tutto il libro. Non avranno a pentirsene. Raramente abbiamo letto pagine più lucide, avvincenti, coraggiose.

E' l'invito che rivolgiamo ai lettori di informazione corretta.





GERUSALEMME. Dove ci incontriamo? Dove vogliamo farci queste due chiacchiere sul terrorismo? Dove ci sediamo, ora che hai finalmente deciso di sapere che cosa ho attraversato in questi due anni? No, non solo quello che ho scritto sul giornale, ma anche quello che è accaduto dentro di me, nella mia vita? Bene, troviamoci al caffè Cafit, nella bohème del Quartiere Tedesco, pietre, fiori, ragazze che guardano le vetrine, signore cinquantenni vestite con un poncho rosso, soldati di diciotto anni che ridono con i loro amici mentre aspettano l’autobus. Al Cafit, dove Shlomi, il cameriere, ha portato via dalle spalle del terrorista suicida la borsa piena di dinamite ed è andato a depositarla lontano. Oppure troviamoci al Café Moment, una punta di cristallo in pieno centro, dove il 9 marzo 2002 un terrorista suicida ha fatto saltare per aria i ragazzi e le ragazze seduti ai tavolini: quattordici morti. Possiamo anche sederci in un ristorante semplice, tipico, che ci faccia buoni spiedini e serva hummus e pita a Mahanei Yehuda, il mercato centrale, luogo di almeno quattro attentati con decine di morti, l’ultimo il 12 aprile 2002; altrimenti si può prendere una pizza da Sbarro, poco lontano, dove il 9 agosto 2001 ci sono stati venti morti fra cui una famiglia di cinque persone, tre bambini e i genitori. Se scendiamo poco più in basso, nelle strade pedonali dove si vendono ricordini, non c’è posto dove vorrai sederti: al caffè Bianchini la padrona ha portato fuori con le sue mani la borsa piena di tritolo; in Rehov ha-Nevi’im è saltato per aria un ragazzo di nome Tomer, una guardia di diciannove anni che aveva fermato una vettura sospetta; Tomer quando Rabin è stato assassinato aveva scritto una lettera di disperazione a Leah Rabin, la vedova; a Me’ah She’arim, non pensiamoci neppure, una famiglia intera è stata sterminata insieme agli amici alla fine di una funzione religiosa; all’angolo di ognuno dei vicoli pedonali del centro è saltata per aria una bomba umana, quasi ognuno dei selciati su cui camminiamo è stato cosparso di membra umane senza fine, ragazzi sono morti nelle mani dei soccorritori terrorizzati. Non c’è luogo che non sia stato macchiato dalla strage qui a Gerusalemme, da Gilo alla Collina Francese, da Nord a Sud, da Kiriat Yovel a Talpiot, da Est a Ovest; i numeri delle linee che hai letto sul giornale quando gli autobus sono saltati per aria formavano una cabala mortale senza fine. Perché, in molti, ben finanziati, ben organizzati e sicuri di sé, equipaggiati con cura, hanno voluto (intendo volere, pianificare, immaginarsi soddisfatto il risultato del suo lavoro, puntare al numero più alto possibile) ammazzare bambini che vanno a scuola, vecchi che vanno a far la spesa, nonni e mamme che accompagnano i figli, lavoratori.



I giovani e i bambini sono le vittime privilegiate del terrorismo, le loro fototessere coprono quasi tutti i giorni le prime pagine. Il terrorismo adora triturare i bambini, perché non c’è nulla di più spaventoso per una società che scavare la tomba ai figli, niente di più inverosimile di un padre che, come quello che ha perduto due bambini in Kenya nell’attentato all’Hotel Paradise, ripete singhiozzando alla folla che lo accompagna a seppellirli, mentre un’altra bambina versa in condizioni gravi all’ospedale e anche la madre è in fin di vita: «Non piangete, non facciamogli vedere che soffriamo, siamo più forti di loro, non l’avranno vinta».

Ad Ashkelon, una città povera del Sud, sono andata a trovare la famiglia di Ofir Rahum, uno dei primi ragazzini uccisi dal terrorismo: la sua storia è fra le più strazianti, perché contiene un misto di amore e tecnologia che finisce nelle fauci della più tribale ferocia. Ofir guarda sul computer nella sua stanza ancora decorata dal Gatto Silvestro, e trova un messaggio di una ragazza palestinese più grande, che vive, lei scrive, a Ramallah. Frasi civettuole sempre più spinte; Ofir, che è abituato al massimo a passeggiare con i compagni di scuola per le strade di Ashkelon, decide di rispondere alla ragazza che, sì, è pronto a incontrarla. Così, senza dirlo a nessuno, si mette i vestiti migliori e prende un autobus. Cambia alla stazione centrale di Tel Aviv per Gerusalemme, e la ragazza lo viene a prendere. Il sole è già a metà della sua strada. Ofir non sa dov’è, non è mai stato a Gerusalemme, non capisce neppure che la macchina della ragazza è entrata a Ramallah.

La sua mamma, magra e bianca, ora che di lui non è rimasto altro che la borsa scolastica, restituitale dalla polizia, dice: «Io penso con consolazione che quando la ragazza ha portato Ofir nelle mani dei Tanzim, la macchina si è fermata e gli è stato detto di scendere, mio figlio non aveva ancora capito niente: non dove era, non che la ragazza volesse ammazzarlo, non che quei ragazzi erano là per fargli del male. Deve essere sceso fiducioso, con una sola grande preoccupazione che io spero occupasse la sua mente, distraendolo dalla sua morte imminente: la mamma sarà preoccupata perché è tardi, cosa racconterò quando torno a casa?». Dunque quel magro ragazzo povero non è mai tornato da suo padre e da sua madre e dai suoi due fratelli, il suo computer l’ho visto ancora acceso. Purtroppo qualcuno mi ha anche mostrato le foto del corpo di Ofir. La crudeltà che gli è stata riservata, la violazione del suo corpo bianco di ragazzino non la racconterò in queste righe. Allora, solo allora, cominciai a capire cosa stava accadendo: era il terrorismo, diverso da tutto quanto mi ero mai figurata, la strage programmata di creature innocenti, e quanto più innocenti tanto meglio. Perché terrorizza di più la loro morte, perché noi ne siamo travolti. Io, ad Ashkelon, lo fui.

È una piccola comunità di coraggiosi quella che, guardando i propri figli che escono di casa per andare a prendere l’autobus, vuol sapere che potrebbero non tornare; o che è disposta a superare un autobus perché quando si vive non si può far tardi pensando che potrebbe scoppiare; che al mattino quando ti dà un bacio di saluto e ti dice «Ti voglio bene» sa che potrebbe non avere mai più occasione di dirtelo. Vivere nel terrorismo non significa soltanto aspettare il bum, il suono delle sirene come un inevitabile appuntamento. È una parte minima della vita nel terrore stare all’erta, guardarsi intorno, cambiare le proprie abitudini, vagliare i costi della vita sociale, dei posti affollati: quando vivi nel terrore dopo gli attentati per un po’ non vai più al supermarket, al cinema, al concerto, a guardare le vetrine, non ti fermi a parlare sulla porta della scuola, della palestra, del lavoro, non ti scocci perché ti frugano ovunque, perché stai in coda dappertutto per i controlli di sicurezza, alla posta, in banca, al caffè... Poi ci torni, torni alla tua vita perché è tua, non dei terroristi. Non ti spezzi anche se piangi tutti i giorni, non smetti di parlare di cibo, di vestiti, di invitare gli amici a cena, non cessi neppure di cercare un contatto con quei pochi amici palestinesi che ti sono rimasti. Ma impari la crudeltà umana, e questo ti terrorizza più del pericolo fisico.

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A pagina 14 di Libero del 2004-06-30, Angelo Pezzana firma un articolo dal titolo «L'antisemitismo oggi è tutto dei progressisti»



Fra gli inviati dei grandi giornali nelle zone calde del pianeta la maggior parte se ne sta al fresco nei grandi alberghi, dove le notizie arrivano senza che si debba faticare troppo. Abituati ad analizzare senza esporsi troppo i nostri grandi giornalisti sono diventati esperti in previsoni che cucinano nelle hall degli Sheraton e degli Hilton, nelle quali prevedono scenari che quasi sempre non si realizzano. E' raro trovarli accanto agli scenari di guerra, al seguito di eserciti americani o inglesi che liberano l'Iraq, per esempio. Molto meglio il bar di un lussuoso albergo. Più tranquillo, più sicuro. E' cosi che veniamo disinformati da inviate televisive in Chador, da inviati i cui resoconti, ideologicamente già preconfezionati, non faranno altro che ripeterci che americani e israeliani stanno sbagliando tutto, che per sapere come vanno realmente le cose è meglio chiederlo a Gino Strada o a qualcuno fra i tanti esponenti pacifisti che adesso avremo il piacere di ascoltare anche dalla tribuna del parlamento europeo.

Se le parole coraggio e giornalismo si potessero abbinare, fondere, ne verrebbe fuori per primo un nome, quello di Fiamma Nirenstein. Andata a vivere in Israele dagli inizi degli anni '90, è per merito delle sue cronache che si riesce a far breccia in quella montagna di rifiuti giornalistici che invadono gran parte della stampa italiana. Professionalità e coraggio, dicevamo, grazie ai quali non c'è vicenda mediorientale che non sia stata raccontata da questa straordinaria testimone con lucidità, chiarezza ed equilibrio.

Dalla sua casa di Gerusalemme, sulla collina del quartiere di Ghilo, circondata da pile di libri,giornali, telegiornali sempre in funzione, telefonate da ogni parte del mondo, Fiamma Nirenstein ha pubblicato il suo ultimo libro ("Gli antisemiti progressisti" ed Rizzoli €18,50), che riconferma ancora una volta quella qualità che, oltre all'intelligenza, possiede a dismisura, il coraggio. In un mondo che pronuncia con malavoglia la parola antisemitismo, come se non proferendola se ne potesse eliminare la presenza, che preferisce non uscire dai confini, dall'ambito della Shoah, quasi a voler dire: è là che è successo, oggi è tutto finito, mentre invece chi non è antisemita sa che non è vero. In più accostandola alla parola "progressisti", rompendo così il tabù della sinistra che tutto può permettersi, anche l'antisemitismo, che le verrà perdonato nel nome delle truppe sovietiche che entrano ad Auschwitz, Fiamma Nirenstein consente ai lettori, disinformati,frastornati, tempestati da immagini e notizie sovente manipolati, di capire una verità molto semplice. L'antisemitismo nazista oggi ha un nome nuovo, anche se la radice della mala pianta è sempre la stessa, è l'antisemitismo arabo, islamista, pacifista, anti occidentale, anti americano e anti israeliano. Il suo libro ci fa capire come Israele sia soltanto una scusa, un pretesto da brandire come una clava, per tentare di finire, come dice la propaganda terrorista araba, il "lavoro interrotto di Hitler". Non è il conflitto israelo-palestinese ad essere in gioco, come vogliono farci credere, è l'odio antico contro gli ebrei che grazie alla viltà, alla complicità di un occidente che perso ogni sua identità, rischia oggi di far saltare in aria gli ebrei là dove hanno ricostruito il loro Stato.Attaccandolo fino al punto di metterne in dubbio la legittimità Il libro di Fiamma Nirenstein non usa eufemismi, va dritto al cervello e al cuore, non fa sconti nel momento in cui ricostruisce con accuratezza encomiabile gli avvenimenti di questi ultimi anni. Leggere "Gli antisemiti progressisti" è indispensabile se si vuole capire quel che ci sta per arrivare addosso, addosso proprio a noi che viviamo in un' Europa che troppo sovente sta dalla parte di chi vuole distruggerci. Che ci dimostra come capirne le ragioni e difendere Israele sia equivalente alla lotta contro il terrorismo che minaccia anche noi. Chiedo scusa ai lettori per questa recensione così poco ortodossa, ma ho voluto sottolineare di questo libro l'aspetto storico- politico, che mi sembra del tutto eccezionale. Certo, nel libro ci sono tutti i racconti "dal vivo" che hanno guadagnato a Fiamma Nirenstein fama e affetto, il raccontare Israele come solo lei è capace di fare. Una lettura che non riuscirete ad interrompere e che vi emozionerà.

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Dal FOGLIO del 3 luglio 2004. la recensione di Giulio Meotti:

"Com'è vecchio il nuovo antisemitismo"



Un male antico e sempre nuovo, l’antisemitismo. Sembra assurdo doverne ragionare

nell’anno di grazia 2004, essere costretti ad analizzarne le più recenti incarnazioni, ma al compito non si sottrae Fiamma Nirenstein, che ha appena pubblicato “Gli antisemiti progressisti. La forma nuova di un odio antico” (Rizzoli, 391 pagine, 18,50 euro). Il libro costituisce una guida preziosa non solo a questi quattro anni di terrorismo interno e internazionale, ma anche alla disinformazione e alla campagna d’odio verso Israele, che coinvolge e vede in prima linea ambienti “democratici”, liberal-progressisti, pacifisti, animati dalla volontà di giustificare, comunque sia, la violenza contro Israele, in nome dei diritti dei palestinesi e degli arabi, identificati, in questa lettura unilaterale, come “vittime sacrificali”. E’ una storia che parte da lontano, come testimonia la stessa vicenda personale della Nirenstein: durante la guerra dei Sei Giorni, comunista come tanti, si trovava in un kibbutz. Franco Fortini, nei Cani del Sinai”, non le perdonò mai quella scelta al fianco dello Stato che Nikita Kruscev, nel 1954, aveva definito come dedito al “volgare saccheggio dei tesori naturali della regione”. Dice che ha ragione Hillel Halkin, autore di Across the Sabbath River”, sul dovere di “essere duri quanto possibile e liberali come nessun altro”. Per questo si chiama “Esercito di Difesa d’Israele”, perché “l’idea che la guerra possa essere solo di difesa e non di conquista ha fornito a Israele la forza di combattere restando una democrazia”.

Nel libro si spiega che il nuovo antisemitismo non è poi tanto nuovo, con una dimensione ontologica come nella seconda guerra mondiale. Yossi Klein Halevy, sul Jerusalem Post, ha scritto che i nemici d’Israele “considerano la sua esistenza un’offesa”. Parlano chiaro i dati del Centro di Studi di Herzliya, con solo il 25 per cento di militari tra le vittime israeliane. L’intreccio è antico – scrive la Nirenstein, il cui libro verrà presentato al Senato il 18 luglio – la natura integralista e totalitaria del terrorismo considera nemici il liberalismo e l’ispirazione democratica del cuore della storia ebraica”.

L’antisemitismo è diventato “rispettabile”, anche un po’ chic, dietro al paravento dei diritti umani. Nel 1964, alle Nazioni Unite, l’antisemitismo

non entrò a far parte nemmeno della “Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale”. Nel rapporto di John Dugard, per la Commissione Diritti umani del 2002, i terroristi

palestinesi “affrontano l’esercito israeliano con determinazione, coraggio e successo”. Non caso David Trimble ha detto che “l’industria dei diritti umani è una delle tragedie del mondo contemporaneo”. A questo, secondo la Nirenstein,

va aggiunto che “le peggiori violazione dei diritti umani sono state seppellite sotto montagne di risoluzioni dell’Onu contro Israele”. Per il Jerusalem Post il nuovo antisemitismo assomiglia più al processo Dreyfus che agli anni Trenta. E lo psicoanalista israeliano Zvi Rex, ha scritto che l’Europa “non perdonerà

mai gli ebrei per Auschwitz”. Fiamma Nirenstein si domanda quando arriverà il giorno in cui si chiederà conto all’Onu di “come l’Iran periodicamente mostri in corteo missili sempre più sofisticati Shihab 3 e 4 dedicandoli in pubblico alla distruzione dello Stato ebraico, mentre i suoi chierici condannano

Israele alla morte atomica”. Israele, con la sua mite, evasiva solitudine, nel suo disagio indicibilmente doloroso, non si arresta per tirare il fiato e dimostra una “grande voglia di vita – dice al Foglio la Nirenstein – . E’ questa

una delle cose che più mi premeva sottolineare”. E’ una “piccola comunità di coraggiosi che, guardando i propri figli che escono di casa per andare a prendere l’autobus, vuol sapere che potrebbe non tornare”. Perché convivere

col terrorismo “è come fare un viaggio in ciò che l’orrore dell’animo umano, il suo buio più profondo, può provocare”. E l’orrore non inizia con un boato e la sirena, ma “dura tutto il tempo”, ed è come nell’“Oreste” di Euripide, “morte

o vita: una parola”. Lo sconforto e l’indignazione degli israeliani sono come l’acqua contenuta nei versi di Geremia 2,13: “Me hanno abbandonato

/Fontana di acque vive/ Per scavarsi cisterne/ Cisterne spaccate/ Che non trattengono l’acqua”. Il nuovo antisemitismo è esemplificato dalle “tre D” di Nathan Sharansky: “Demonizzazione, Doppio metro di misura, Denegazione del diritto a esistere”. Nella guerra terroristica, con Nick Berg e Daniel Pearl, avrebbe ragione Kafka a sostenere che chi colpisce l’ebreo colpisce l’uomo”.

Giulio Meotti

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