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Diego Gabutti
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Ritratto di Jan Brokken, uno scrittore ingiustamente non conosciuto come merita 04/03/2020
Ritratto di Jan Brokken, uno scrittore ingiustamente non conosciuto come merita
Commento di Diego Gabutti

Risultato immagini per Jan Brokken, I giusti
Jan Brokken, I giusti, Iperborea 2020, pp. 640, 19,50 euro (ma anche Anime baltiche, Iperborea 2014; Il giardino dei cosacchi, Iperborea 2016; Jungle Rudy, Iperborea 2018; Bagliori a San Pietroburgo, Iperborea 2017; Nella casa del pianista, Iperborea 2011).

Uscendo dall’ufficio, nell’atrio m’imbatto nel professor Dovid Katz. «Un paio d’anni fa» [mi dice] «qui a Vilnius c’è stata una grande manifestazione dell’estrema destra. Erano contro tutto e tutti: ebrei, russi, bielorussi, stranieri, comunisti, socialisti, omosessuali… Il giorno dopo l’ambasciata polacca emana un comunicato stampa: “Siamo profondamente disturbati dal fatto che i dimostranti non abbiano menzionato la Polonia nei loro slogan. Da quando in qua non siamo più tra i nemici della Lituania?”» Jan Brokken, Anime baltiche Storia di uomini e di tempi eccezionali, I giusti è soltanto l’ultimo tra i tanti libri eccezionali di Jan Brokken, tutti tradotti nella nostra lingua da Iperborea (non fosse che per questo casa editrice benemerita). Storico e saggista, giornalista e narratore, ogni libro di Jan Brokken è tutte queste cose insieme, e tutte perfettamente amalgamate: un reportage, un saggio, una storia (la Storia) popolata di personaggi (nei Giusti sono migliaia) che si si affollano nei capitoli, lottano per la vita, fanno «quel che va fatto» senza calcolare le conseguenze, fuggono verso l’Asia col fiato della Gestapo e dell’NKVD sul collo, cadono e si rialzano, anche se non sempre e non tutti, battendosi e soffrendo come in un romanzo d’avventure (soprattutto di disavventure, ma spesso a lieto fine). Prima di ricostruire, con I giusti, una delle tante storie dimenticate del XX secolo, quella di Jan Zwartendijk, alto funzionario della Philips lituana a Kaunas e per un breve periodo console olandese in Lituania, Brokken ha raccontato altre grandi storie, quasi tutte altrettanto amare: gli anni di Dostoevskij deportato in Siberia nel Giardino dei cosacchi; quello dei «grandi nomi della cultura mondiale» nati nei paesi baltici e da lì fuggiti (Sergej Ėjzenštejn, Hannah Arendt, Romain Gary, Gidon Kremer, Michail Baryšnikov, Czesław Miłosz, ma anche la baronesssa Alessandra Wolff-Stomersee, prima psicoanalista italiana e moglie di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del Gattopardo); uno straordinario viaggio nella poesia russa moderna da Anna Achmatova a Iosif Brodskij in Bagliori a San Pietroburgo; le imprese dell’avventuriero Rudolf Truffino tra gli indios del Venezuela in Jungle Rudy; l’intensa e breve vita, Nella casa del pianista, del grande concertista russo Youri Egorov (omosessuale, fugge in Occidente negli anni settanta e nel 1988 muore ad Amsterdam, di AIDS).

Non c’è saggio storico-reportage-libro d’avventura di Jan Brokken che non esplori qualche angolo segreto del XX secolo, che tra tutti è il più inimmaginabile, e che tuttavia è accaduto davvero. È il 1940, e anche su Vilnius, capitale della Lituania, incombe l’ombra del totalitarismo, oltre che della guerra: a ovest Hitler, Stalin a est, all’epoca ancora alleati tra loro. Per l’Europa, compresi gli stati baltici, è un terribile momento: la Polonia devastata, la Francia in ginocchio, il Terzo Reich padrone di tutto. A nessuno, nemmeno ai più pessimisti, sembra possibile che possa andare peggio di così. Molti s’aspettano qualcosa di tragico per gli ebrei, ma nessuno immagina la Shoa (se qualcuno concepisce la distruzione d’un intero popolo come un evento possibile, subito scaccia il pensiero, terrorizzato). Nessuno, d’altra parte, è così ottimista da pensare che i nazisti, qualunque cosa si propongano, non stiano facendo sul serio. Quindi gli ebrei si dirigono a est, sperando di lasciarsi dietro le spalle l’Europa che gli antisemiti tedeschi, col Blitzkrieg dei primi mesi di guerra, hanno appena sottomesso. Giunti in Lituania, però, alle frontiere con l’URSS, per proseguire non c’è che un modo: ottenere un visto che permetta d’attraversare l’Unione sovietica in treno, fino a Vladivostock, dove partono le navi per il Giappone. Non c’è paese, però, che sia disposto ad accogliere le masse di profughi ebrei in fuga dall’inferno nazionalsocialista (una nave carica d’ebrei, la St. Louis, nel maggio 1939 raggiunge Cuba, che la respinge, come la respingono gli Stati Uniti, e così è costretta a tornare in Europa, nelle fauci cannibali di Hitler, che divora tutti i passeggeri). Nessuno è disposto a concedere visti, tranne pochi Giusti (non semplicemente giusti ma Giusti). Jan Zwartendijk, console olandese un po’ per caso, è uno; e il suo collega giapponese Chiune Sugihara un altro. Insieme, senza mai neanche incontrarsi di persona benché lavorino a pochi isolati di distanza l’uno dall’altro, ma parlandosi soltanto qualche volta per telefono, Zwartendijk e Sugihara mettono a punto un perfetto piano di salvataggio: l’olandese rilascia visti per Curaçao, nelle Indie olandesi, mentre il giapponese scrive e firma i visti di transito per il Giappone (o meglio li pennella, perché i caratteri sul passaporto devono essere giapponesi, e non si possono scrivere con una stilografica qualunque). Zwartendijk e Sugihara, per settimane e settimane, mentre i russi occupano il paese e minacciano di chiudere i consolati, firmano visti per venti ore al giorno, le mani indolenzite, senza mai uscire dall’ufficio. Firmano visti anche dal finestrino del treno quando il nuovo regime li costringe a lasciare la città. Lanciano gli ultimi visti agli ebrei che li hanno seguiti e che ora affollano la banchina della stazione (scritti su fogli volanti, senza intestazione, i visti non hanno alcun valore legale, eppure molti devono la vita proprio a questi visti tarocchi dell’ultimo minuto, acchiappati al volo, come bolle di sapone nell’aria, correndo dietro al treno). Sugihara, per aver partecipato a questa operazione, sarà cacciato dal servizio diplomatico, salvo essere recuperato come eroe nazionale vent’anni dopo la guerra (il Giappone, alleato degli antisemiti tedeschi, non ha altra benemerenza umanitaria da far valere).

Anche Zwartendijk è disapprovato dal competente ministero olandese. Ma lui è un funzionario della Philips, e può continuare a esserlo, mentre Sugihara deve adattarsi ai lavori più umili, ed avrà i riconoscimenti che gli spettano solo molto più tardi (un film del 2015, Persona non grata, ha ricostruito la sua storia). Quando Israele lo onora come Giusto tra le nazioni, Sugihara ha inoltre la fortuna di sapere che i suoi visti hanno davvero salvato la vita a migliaia di persone, mentre Zwartendijk muore prima di sapere qual è stato il destino di tutte quelle persone disperate. Solo quattro di loro si sono fatti vivi con lui in tutti quegli anni. Teme, e se ne sente in qualche modo responsabile, che tutti gli altri siano morti. Sottovalutando il suo ruolo nell’affare dei visti, per anni Israele rifiuta d’onorare anche lui, al pari di Sugihara, quale Giusto tra le nazioni. Ma è Zwartendijk, non Sugihara, che gli ebrei salvati e dispersi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Palestina, chiamano l’«Angelo di Curaçao». Oggi anche lui è uno dei Giusti: giustizia è finalmente resa. Massima giustizia, però, gliela rende questo magnifico libro di Jan Brokken: una grande storia, una storia corale, dove si dipanano attraverso fotografie, memoriali, interviste, gl’innumerevoli destini e le bellissime storie personali che Zwartendijk, l’Angelo di Curaçao, rese possibili sottraendole al lato oscuro e terrificante della Storia.

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Diego Gabutti

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