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La Stampa Rassegna Stampa
02.03.2020 Israele alle urne: ecco che cosa chiedono i cittadini
Due servizi di Meir Ouziel

Testata: La Stampa
Data: 02 marzo 2020
Pagina: 8
Autore: Meir Ouziel
Titolo: «Le minacce alla sicurezza richiedono un governo stabile - Negli insediamenti che vogliono essere parte d'Israele»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/03/2020, a pag.8, con i titoli "Le minacce alla sicurezza richiedono un governo stabile", "Negli insediamenti che vogliono essere parte d'Israele", due servizi di Meir Ouziel.

Ecco gli articoli:

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Meir Ouziel

"Le minacce alla sicurezza richiedono un governo stabile"

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Netanyahu, "un Churchill in un mondo di Chamberlain"


Israele sta vivendo un momento politico senza precedenti da quando è stato fondato più di settant'anni fa e si trova in un labirinto dal quale nessuno sa come uscire. Il 2 marzo, per la terza volta in meno di un anno, si terranno nuove elezioni. A sfidare il primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, c'è il partito «Blu e Bianco», guidato da tre ex Capi di Stato Maggiore dell'esercito e da un famoso giornalista televisivo. Un partito che, al pari di Netanyahu, non è riuscito a ottenere la maggioranza nelle precedenti tornate elettorali, tenutesi il 9 aprile e il 17 settembre del 2019. 
L'impasse in cui si trova Netanyahu è difficile da spiegare in quanto Israele, negli ultimi anni, ha vissuto cambiamenti decisamente positivi. L'ultimo, in ordine di tempo, è il riconoscimento della legalità degli insediamenti in Giudea e in Samaria da parte degli Stati Uniti d'America e il conseguente permesso di annettere gran parte di quelle regioni nel quadro del «Patto del Secolo», il piano di pace proposto dagli americani tra israeliani e palestinesi. Un altro miglioramento si è registrato in campo economico. Nel 2009 - l'anno in cui Netanyahu è stato nominato primo ministro - il reddito pro capite era di circa 24,000 euro, mentre già nel 2018 aveva superato i 36,000 euro, con un tasso di disoccupazione prossimo allo zero. Sotto il governo Netanyahu Israele si è inserito ai vertici dell'economia globale, annoverandosi fra i paesi più sviluppati del mondo. 
Un altro cambiamento degno di nota, in negativo però, è la perdita di fiducia di molti israeliani nel sistema giudiziario. Negli ultimi anni Netanyahu è stato indagato per corruzione ma una parte dell'opinione pubblica, e anche della magistratura, ritiene che le accuse contro di lui siano false. Non riuscendo infatti a batterlo alle urne, come sostiene lo stesso premier, i suoi avversari politici cercano di sbarazzarsi di lui ricorrendo a vie giudiziarie.


Malgrado in Israele ci siano diversi partiti politici il grosso degli elettori della destra e della sinistra vota per i due maggiori e tale divisione si riflette anche su un piano sociale. Ricerche infatti dimostrano che a scegliere a sinistra sono generalmente i residenti delle grandi città, atei, abbienti e con un migliore livello di istruzione. A sostenere la destra, invece, sono gli abitanti delle zone più periferiche, con minori disponibilità economiche, meno istruiti e più vicini alla religione. Un quadro piuttosto stereotipato, ma comunque corretto. La suddetta divisione esisteva anche in passato ma, fino a pochi anni fa, dalle urne è sempre uscito un vincitore. Nei primi anni di Israele è stata la sinistra a governare ma nel 1977, per la prima volta, è salita la destra al potere con il partito del «Likud», che da allora si è mantenuta al timone del Paese anche se occasionalmente la sinistra è tornata a prevalere (si ricordi in particolare l'esecutivo da Yitzhak Rabin). Ma ecco che alle elezioni di circa un anno fa si è creata una situazione di quasi parità e nessuno dei due maggiori partiti è riuscito a formare un esecutivo. Sono quindi state proclamate nuove votazioni ma il risultato non è cambiato e non si è riusciti nemmeno a trovare un accordo per un governo di unità nazionale. Sebbene infatti le differenze ideologiche tra i due maggiori partiti non siano incolmabili, e malgrado Netanyahu abbia proposto un'alternanza alla carica di premier, il partito «Blu e bianco» ha respinto tale proposta poiché sulla testa del premier uscente pendono capi d'accusa. Nel frattempo, qualche giorno fa, è stata avviata un'indagine di corruzione contro una società amministrata in passato da Benny Gantz, il leader del partito «Blu e Bianco», e la situazione si è fatta ancora più complessa. Dagli ultimi sondaggi sembrerebbe quindi possa esserci il rischio di una quarta tornata elettorale in Israele, cosa forse familiare agli italiani ma nuova per gli abitanti dello stato ebraico.
Israele, che si trova sotto la costante minaccia di organizzazioni come Hamas, responsabile del lancio di razzi sui suoi centri abitati, come Hezbollah, e anche dell'Iran, che dichiara apertamente di volerlo distruggere, non può permettersi una situazione simile. Non esiste infatti altro Paese al mondo minacciato di annientamento e il lusso di portare avanti un dibattito politico infinito e di tenere elezioni improduttive potrebbe essere pericoloso nello stato di continua allerta in cui Israele si trova.
Traduzione
 di Alessandra Shomroni

"Negli insediamenti che vogliono essere parte d'Israele"

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Ofra

La Terra Promessa non è mai stata così verde. L'inverno ha portato piogge in abbondanza e ai primi assaggi di primavera è tutto un fiorire di mandorli, fra il rosa e il viola, che contrastano con lo smeraldo degli olivi e dei pascoli, la pietra bianca e le greggi di pecore che scorrazzano felici. Dall'insediamento di Ofra, un migliaio di famiglie in cima alla collina, nuovi ruscelli si fanno largo fra case e campi, e irrigano i vigneti ancora brulli. Sembra sia scesa la benedizione dal cielo e molti degli abitanti cominciano a crederci davvero. Da Washington è arrivato il regalo che molti attendevano, senza sperarci troppo. Il via libera degli Stati Uniti di Donald Trump all'annessione a Israele di questa parte della Cisgiordania, anzi della Giudea come dicono gli abitanti. E se Benjamin Netanyahu manterrà la sua promessa, di procedere subito con l'estensione della sovranità dopo il voto di oggi, presto Ofra non sarà più un «insediamento», o ancor peggio «una colonia», ma un pezzo dello Stato ebraico a tutti gli effetti. Per questo le elezioni, le terze in appena undici mesi, sono così sentite, un'occasione irripetibile, da non perdere, a patto che King Bibi riesca a battere Benny Gantz, a conquistare la maggioranza dei 61 seggi alla Knesset e andare avanti con il piano americano.


Yoram Cohen è uscito di prima mattina, con il berretto di cuoio nero in testa, e ha svuotato le bacinelle piene di acqua piovana nei vasi di timo e salvia. Accarezza le piante e annusa il profumo. Ha un «buon naso» come richiede il suo mestiere di vignaiolo. Ha fatto il fotografo con un certo successo per più di vent'anni, poi si è trasferito a Ofra e ha costruito con le sue mani la casa vinicola «Tanya» e si è fatto apprezzare. Le bottiglie, soprattutto Merlot, sono esportate in Europa e Stati Uniti. Il «piano Trump» potrebbe dargli una mano e soprattutto certificare quella che è per lui una certezza granitica: «Questa è terra ebraica da migliaia di anni, non siamo venuti a usurpare nessuno», ribadisce. Il Merlot invecchia in botti di rovere ungherese, un vino «kosher» al cento per cento, e per questo invita i non ebrei a non toccarle. Come la nascita dello Stato ebraico, nel 1948, anche Ofra, i suoi vigneti, sono il frutto di un miracolo, sempre appeso a un filo. «Ricordo ancora le settimane prima della guerra del '67 – ricordavano – erano convinti di perdere, Re Hussein urlava che ci avrebbe ricacciato in un mare, mio padre aveva scavato un rifugio con le sue mani, aspettavano la fine». E poi la vittoria miracolosa, che ha aperto le porte alla Giudea e alla Samaria, e all'insediamento di Ofra.
«Chi può avere il coraggio di dirci di andare via, e tornare un popolo senza patria, come siamo stati per 2 mila anni, l'unico popolo al mondo? I miei nonni paterni erano di Gerba, Tunisia, pregavano nella grande sinagoga, quelli materni della Galizia, Ucraina, eppure erano un popolo, con un solo desiderio: tornare qui». Con i palestinesi dice di vivere in pace, senza problemi, perché l'insediamento «dà lavoro» anche a loro. «Ma non possiamo dargli uno Stato. Golda Meir diceva "se gli arabi depongono le armi sarà pace, se lo facciamo noi Israele sparirà"». La quiete fra le villette immerse nel verde ha forse ora un aspetto meno provvisorio ma scendendo verso Sud, nel costeggiare i sobborghi di Gerusalemme, nel groviglio di strade, muri, tunnel, barriere anti-cecchini, l'idillio svanisce. La Fortezza Israele costruita da Netanyahu piace, ma alla fine a meno di metà degli israeliani. E anche negli insediamenti molti la pensano diversamente. Nel primo pomeriggio Kafr Etzion è immerso in una nebbia fitta e la primavera è già svanita. Il villaggio è più antico di Israele stessa, fondato come kibbutz religioso nel 1927. E la voglia di sperimentare resta intatta.


Eliaz Cohen, sociologo e filosofo, la kippah immersa in un mare di riccioli castani, ha lanciato da qui uno dei progetti più visionari della storia recente, il movimento Una Terra per Tutti. «Sono sette anni che lavoriamo con i palestinesi – spiega – il nostro è un piano serio, non la barzelletta proposta da Trump: in 158 pagine non c'è mai la parola eguaglianza, non è un proposta di pace, è uno schiaffo, un'umiliazione dell'altra parte». Ma l'idea Una Terra per Tutti va anche oltre il processo di Oslo, «pessimo, che non ha mai funzionato». Si basa sull'idea «una nazione, due Stati», israeliano e palestinese, confederati e intrecciati, senza più barriere. «La nostra proposta risolve i quattro maggiori problemi: confini, insediamenti, ritorno dei rifugiati, Gerusalemme – continua Cohen -. L'abbiamo inviata anche al dipartimento di Stato americano. Questa terra appartiene a ebrei e arabi da sempre. Non si può dividere. Il tempo ci darà ragione, forse già da domani quando un'intesa fra Netanyahu e Benny Gantz sarà inevitabile».

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