"THRENOS", Il canto triste e la prosa secca di un popolo al confine con la luce. La nuova letteratura israeliana.
di Giulio Meotti dal Foglio del 5-6-2004
La nuova letteratura israeliana è il threnos, canto triste, di un popolo alle
prese col terrorismo, si muove nella“più vicina costa delle tenebre al confine
della luce” di John Milton. Perché per Amos Oz “aleggia su tutti l’ombra
della paura esistenziale. Da settant'anni ci sentiamo come si sente Rushdie:
condannati dal fanatismo musulmano”. Negli anni ’20 Albert Londres scriveva su Petit Parisien: “Dal giorno della posa della prima pietra, gli arabi hanno replicato: tu sarai distrutta”. Il padre di Oz lasciò un’Europa tappezzata di scritte: “Ebrei, andatevene in Palestina”. Anni dopo ne trovò altre: “Ebrei, fuori dalla Palestina”. Nessuno consolerà Rachele per i figli perduti, altri verranno, ma saranno sempre altri. Per Jon Papernick (“La lampada resterà accesa”, Garzanti) “la morte è nell’aria, come in Europa prima della guerra”: si rompono i vetri della città, gli specchi non riflettono immagini, l’eco delle ambulanze frantuma il suono, le ombre dei passanti sono diverse dalle meridiane e la morte, del verde disperato di Soutine, è deturpata come nei quadri di Ensor. E’ una mise en abyme, un paese che lo ha guardato fin troppo e l’abisso si è riflesso nel suo spirito. Poche decorazioni e iloti della parola, non l’assillo della scrittura a effetto, ma un secco tono eburneo, l’amarezza
desolante, il dramma sommesso, gli echi incrociati, la voglia di riscatto, una successione di momenti e impulsi scheggiati a raccontare quest’anti destino
alla Malraux che è la convivenza con il terrore, ad avvolgere Sion in un sudario
notturno. Ezechiele ordinò di nutrire “il ventre e le viscere con questo rotolo
che ti porgo”. Re Ioakìm lo bruciò e Dio ordinò di scriverlo di nuovo. La
“brigata della carta” salvò migliaia di libri dal fuoco tedesco. Furono fucilati a Ponar, dove le Einstatzgruppen uccisero per primi quelli che sapevano leggere. “Come l’antico grano, che si è trasformato in canto, anche le parole nutriranno”, scrisse Sutzkever, che riuscì a trafugare dal ghetto di Vilna lettere di Tolstoj e disegni di Chagall. E’ la metempsicosi di Nerval, che ne “Le figlie del fuoco” fa di ogni libro la successione dell’altro. Gli israeliani, direbbe Heine, riversano sempre “il tormento e l’indignazione,
quando sfogli la pagina stampata leggi nel mio cuore”. Per questo Oz ritiene che “gli israeliani leggono come ossessi, più di qualsiasi altro popolo
sotto il sole. Ma non leggono per godimento. Leggono per arrabbiarsi, per
dissentire”. E’ il linguaggio delle pietre di Celan: oltre ai mirti promessi da
Isaia, Dio volta loro le spalle (Esodo 33-22), i cadaveri sono sparsi dovunque, urlano le cantanti del Tempio (Amos 8-3) e i profeti sono muti (Geremia 1-6). Sebbene per Amos “pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto”, l’albero muore spesso sotto il peso ingordo delle viti. Birchen e Buchen, due sillabe e faggi e betulle diventano inferni. Le “Parti umane” (edizioni e/o) di Castel-Bloom sono quelle che gli uomini di Zaka hanno raccolto a Sbarro, a Mike’s Place, al Dolphinarium e alle fermate degli autobus. “Gli israeliani divennero cupi, i volti impenetrabili, silenziosi, controllati, chiusi, sbalorditi, tristi, complicati e molto amichevoli”. Nei suoi personaggi c’è devozione e compassione, una solitudine
spirituale in cui subiscono il destino, il silenzio è illuminato e la luce è
silenziosa. Il Roveto Ardente del terrorismo “Il mio pensare a Israele è un temere per Israele”, scriveva Celan. E’ il nuovo Roveto Ardente del terrorismo, i ramoscelli dita allargate nella disperazione e nella preghiera. Non il Giordano, il Mar Morto o Tiberiade sono la risposta alla domanda di Pound: “Quale acqua ha addolcito i tuoi fischi?”. Quella della prosa israeliana è la penombra che precede un’alba più scura della notte, la gramiglia dolorosa di chi è immigrato nell’Antica Nuova Terra di Herzl, solid(solida) and sullied (deturpata). “A dire la schietta verità” direbbe Amleto, sono andati “a conquistare un fazzoletto di terra che non promette alcun profitto se non nominale”. La speranza rimane, la stessa che spinse i coloni a nominare, appunto, “grano di Dio”, “collina della vita” o “faro di luce” le nuove città.