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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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A.B.Yehoshua-Antisemitismo e sionismo
ABRAHAM YEHOSHUA

EINAUDI

90 PAGINE, 7 EURO



L’antisemitismo vive con la Diaspora, l’ebraismo è possibile solo in Israele (Giulio Meotti, Il Foglio, 21/05/2004, a pagina 2)







Ha ragione Vlodek Goldkorn a premettere

che “la tesi che sostiene Yehoshua è

di quelle che invitano a essere cauti, pazienti

e scevri da pregiudizi”. E’ un’idea che

risale ad Hannah Arendt: l’antisemitismo

cresce di pari passo con l’assimilazione. Ma

nemmeno a una sradicata newyorchese com

lei venne in mente di metterlo in relazione

con l’identità ambigua di cui parla

Abraham Yehoshua nella sua intervista all’Espresso

(sull’argomento Yehoshua ha

scritto “Antisemitismo e sionismo”, Einaudi,

90 pagine, 7 euro). Rivolto a un’antisemita

immaginario e giocando con lo specchio

sartriano, spiega: “Tu affermi certe cose non

perché sei cattivo, ma perché la non chiarezza

dell’identità ebraica ti permette di

proiettare sugli ebrei (e non sugli altri) le

tue fantasie”. Il problema è l’“eccesso di immaginazione”

e la fluidità dell’ebreo della

Diaspora. Il più importante scrittore israeliano

pensa, e lo dice chiaramente, che l’esistenza

ebraica ha senso solo in Israele.

Per questo prospetta la fine dell’esilio: “Ho

un’identità completa, non parziale come gli

ebrei della Diaspora”. Non ha “alcun dubbio

che il ritorno di una parte del popolo

ebraico nella terra d’Israele contribuisca

notevolmente a limitare la componente virtuale

dell’identità ebraica classica”. E quindi

l’antisemitismo. Persino i coloni. Non

vanno ad abitare a Tekoah, dove è nato

Amos, a Bethel, dove Giacobbe ha sognato

l’angelo, a Shiloh, dove fu eretto un tabernacolo,

o a Bet-shemesh, dove si incontravano

i re di Giudea e Israele, “perché legati

spiritualmente ai luoghi della storia

ebraica, ma proprio per farsi contaminare

dagli arabi, per averli come specchio”. Che

avrebbero detto Paul Celan, per cui “essere

esclusi è la nostra sola dignità”; il più grande

talmudista, il Rashì, che invitava Abramo

ad abbandonare la tenda e a riprendere

il cammino; l’ebraista ceco, John Milton, o

quel tragico inebriato dalla “nostalgia ardente

e dolorosa” di Hegel, Franz Rosenzweig,

che parlava della “venuta sempre

ritardata del Messia”? E Franz Kafka, che

consigliava “nella lotta fra te e il mondo di

secondare il mondo”? Per Norman Manea

“la nostra agorà non è quella greca! Noi ci

siamo spostati da un baratro del mappamondo

all’altro”.

Ha ragione Yehoshua a dire che “la radice

dell’odio non è il cristianesimo”. La modernità

ha iniettato dinamiche più infernali.

Ma come dimenticare la scelta di far

mangiare a Giuda, il padre di Shylock e Iago,

il boccone intinto nel dolore dell’Ultima

Cena? L’intervista con Goldkorn è a tratti

scandalosa: “Perché non siamo stati capaci

di proteggere un milione di bambini? E parlo

di un milione di bambini, non di sei milioni

di ebrei, perché un adulto che non sa

proteggere i propri figli non è maturo. E’ la

nostra vita immaginaria e non concreta che

ci ha impedito di essere maturi e ci ha portati

alla catastrofe”. E la memoria di quegli

uomini e donne che entrarono nelle camere

a gas con gli alleluia sulla bocca, o che

esausti delle torture ripetute si presentarono

alle porte di Treblinka per essere messi

a morte; dei padri che aiutarono i figli a suicidarsi;

delle ragazze che si offrirono ai

kapò o dei deportati che suonavano Chopin

per le guardie ucraine nelle sere d’estate?

Per Manea, “Céline o Cioran sarebbero più

adatti a descrivere il fiele”. Emile Cioran ha

Sacri palazzi

I paragoni di mons. Lajolo non

piacciono all’ambasciatore Usa,

Costantinopoli contro Atene

scritto cose strazianti, splendide e sulfuree

sull’ebreo della Diaspora. L’ebreo è l’uomo

che non sarà mai di qui, “la voce stentorea

non gli si addice”, l’“anchilosi di una tregua

non incombe su di loro”. “E’ la loro sorte,

mentre aspirano al Paradiso, urtare contro il Muro del Pianto”. Per Cioran, “l’uomo è

un ebreo non compiuto”. “Siamo figli di

Agar, ci siamo cibati di sassi e le vespe hanno

cantato per noi”. E’ l’opinione di George

Steiner, che Yehoshua cita nel suo libro come

esempio di ebraismo errante. Per Steiner

Israele è un “miracolo triste”: “dove un

tempo suonava Geremia sorgono oggi topless

bar”. Una voce gli direbbe di andare,

ma il suo sionismo è un candelabro a sette

bracci con la punta rivolta altrove: “Highgate,

Golders Green o il vento vanno benissimo”.

E’ un’analisi coraggiosa e audace

quella di Yehoshua, forse il grimaldello per l’antisemitismo e quel terzo di popolazione

ebraica che forse scomparirà a causa dei

matrimoni misti. Non ci è piaciuta l’analogia

con cui gli abitanti della Diaspora diventano

gli impuri di Moab, i lebbrosi di Sidone,

amoriti, gebusiti e cheniti senza più la

speranza di assistere alla fine del pregiudizio.

Sono seduti anche loro al tavolo di Cana

in Galilea. E’ questo che Yehoshua dimentica.



Giulio Meotti


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