Recensione di Simonetta della Setta sul Foglio di sabato 13 marzo 2004, a pagina 4
Dev’essere stato a causa dei suoi diversi nomi, ciascuno dei quali – come sono
convinti gli ebrei ortodossi – ha in qualche modo influito sul suo destino. Vittorio Dan Segre – classe 1922 – si è trovato ad attraversare la sorte come un funambolo, saltando da un nome all’altro, da una vita all’altra, con tocco leggero, abilità e stravaganza. Viaggiando in lungo e largo, sia geograficamente
che intellettualmente, tra ostacoli e successi. Dal Piemonte alla Palestina, dalla Francia all’Africa, dall’America alla Svizzera, passando, a cavallo, per l’Irlanda. Da una guerra a una pace, da un’isola sperduta a una grande capitale,
da un kibbuz israeliano a un ricevimento principesco. Ovunque, con lo stesso impeccabile stile, e con una speciale profondità. Rispondendo con umorismo a chi si congratula per la nuova brillante avventura intrapresa: “…non è altro che un modo per riparare a un fallimento!”. Cambiamenti che lo hanno portato
al fianco di primi ministri, re, scienziati, guerrieri e scrittori; facendolo continuamente entrare nei capitoli della storia. Come soldato, diplomatico, accademico, giornalista, studioso, scrittore e grande amante della vita stessa. Ora le sue numerose carriere, le avventure e i paradossi che le hanno sempre accompagnate, sono diventati un secondo libro autobiografico. “Il bottone di
Molotov. Storia di un diplomatico mancato” (edito da Corbaccio) esce quasi venti anni dopo la “Storia di un ebreo fortunato” (Bompiani,1985) che rievoca la parte giovanile della sua esistenza.
In questo ultimo libro Dan è l’uomo che, dopo aver partecipato alla guerra di indipendenza di Israele nel 1948, entra nella giovane diplomazia del nuovo Stato. “Nulla – confessa spesso agli amici – mi appassionò più della carriera diplomatica: cominciò per sbaglio e finì con un processo per tradimento”.
Effettivamente il consigliere diplomatico Dan Avni – con un nome israeliano coniatogli quasi per gioco da una giovanissima sionista bionda e soda – viene sospettato di spionaggio con la Russia, a causa delle gesta di un suo omonimo. Isaiah Berlin definì il caso “un piccolo affare Dreyfus di burocrati deficienti”. Dieci anni ci vollero prima che una lettera del ministero degli Esteri israeliano e un colloquio a quattr’occhi nella “cucina” di Golda Meir lo liberassero dal sospetto. Si era però “frantumato” il sogno con il quale aveva dedicato ventuno anni di vita al servizio di Israele. Anni non qualsiasi. In
cui Segre apprende a sue spese che i magnifici quadri esposti in casa Rothschild a Parigi non sono “i ritratti del barone e della baronessa da piccoli”, come aveva osato indovinare, ma degli autentici e pregiatissimi
Velázquez. Gaffe che gli costa il rapido passaggio da consigliere culturale dell’ambasciata israeliana in Francia ad addetto stampa relegato per motivi di spazio nei sotterranei della stessa sede diplomatica. “Occuparmi della stampa non era comunque per me meno impegnativo che occuparmi della cultura – scrive Segre – ma aveva due vantaggi: non dovevo più fingere di avere conoscenze che non possedevo e Israele, a quell’epoca, faceva notizia in maniera quanto mai positiva”. Inoltre “… il mio lavoro con la stampa offriva contatti inaspettati con i circoli di potere e preziose informazioni sui paesi arabi… mi capitava così di trovarmi in possesso di notizie che facevano gola al mio ministero e suscitavano gelosie nei miei colleghi dei servizi segreti”. Una porta d’accesso
naturale al mondo dell’intelligence, al quale Segre era già stato aggregato nel 1945 a Roma, “negli uffici militari inglesi e presso i servizi segreti italiani, nel periodo in cui erano ancora sottoposti alla Commissione alleata di controllo”.
Dieci anni dopo, nel luglio del 1955, Dan Avni, designato come portavoce del premier israeliano Moshe Sharett, assiste a Mosca alla rottura dei rapporti tra Urss e Israele, di fronte al suo primo ministro che, nella concitazione di quella dura conversazione con il ministro degli Esteri russo Molotov, gli contorce il bottone della giacca fino a staccarglielo.
Ne “Il bottone di Molotov” vi è il racconto di uno Stato giovane e inesperto, ma anche di un suo inviato curioso e intelligente che, una volta nei panni del diplomatico, una volta in quelli del giornalista, tesse o “inventa” accordi tra il neonato Israele e i paesi africani alle soglie dell’indipendenza. Vi sono
l’Etiopia del Negus, la Tanzania di Nyerere, il Madagascar sulla scia dei grandi re. C’è la Gerusalemme divisa (tra il 1949 e il 1967), dove una vecchietta ricoverata all’ospedale francese di Notre Dame, perde la dentiera,
cadutale dalla finestra sulla terra di nessuno, ma dove cristiani ed ebrei aprono dialoghi teologici e filosofici in piccole comunità intellettuali; la città santa alla quale Paolo VI fa visita ma delude le aspettative di Israele
con un duro discorso pronunciato sul Monte Sion e un telegramma di ringraziamento al presidente dello Stato inviato a Tel Aviv e non nella “capitale”.
Il libro finisce con lo scoppio della guerra dei sei giorni e un colpo di mortaio che colpisce il palazzo dove abitano i Segre. E’l’apertura di un’era nuova, di problematiche diverse, di altre illusioni e delusioni. “Cercare
di contribuire a dipanare questa matassa di dilemmi è stata la mia ambizione
nel corso di una carriera accademica intrapresa tardi nella vita”, scrive Segre, che all’Università di Lugano ha poi creato l’Istituto di studi mediterranei. “Mi ha permesso di riflettere sull’importanza che l’idea di neutralità e dei meccanismi di coesistenza culturale potrebbero avere per la soluzione dei conflitti mediorientali”. Oggi Segre cerca di “sviluppare dialoghi tra avversari”. Nella originalità che gli è propria, l’utopia potrebbe