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Giorgia Greco
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MICHEL WARSCHAWSKI, A PRECIPIZIO
MICHEL WARSCHAWSKI

A PRECIPIZIO

BOLLATI BORINGHIERI- 7 EURO



"A precipizio", il libello di un ebreo che non ama Israele: Warschawski



Michel Warschawski è figlio di uno dei più famosi rabbini europei e condirettore dell'Alternative Information Center di Gerusalemme, che ha sede nella bella Ben Yehuda. Il suo nuovo pamphlet, dedicato a Yankel e Ruth, antinazisti e anticolonialisti, vuole “mostrare la folle corsa di Israele verso la sua distruzione e un regime di tipo fascista”. Michel è sulla spiaggia di Tel Aviv con un’amica francese. Lei va a chiedere a degli operai rumorosi di fare più piano, ma uno di loro gli dà della “sporca puttana”. E’ così che concludono che la società israeliana è “gravemente malata”. Poco distante, ignorata, la lapide del Dolphinarium. Nonostante Bollati Boringhieri sia la più selettiva casa editrice italiana, con “A precipizio”, il libello di Warschawski, ha avvallato falsità che pochi si aspettavano potessero uscire dalla bocca di un israeliano che a quindici anni fece aljah per studiare il Talmud. E’ in Francia, un cui ambasciatore ha chiamato Israele “quel piccolo stato di merda”, e oggi anche in Italia, che Warschawski, finito più volte in galera per aver sostenuto organizzazioni palestinesi illegali, ha trovato orecchie sensibili al suo messaggio intriso di anglofobia, antiliberalismo e odium sui israeliano. Un pandemonio che nemmeno gli inviati di Sciuscià a Betlemme avrebbero potuto eguagliare. Questo il quadro. Israele sta compiendo “un’occupazione brutale e sanguinaria che gode dell’appoggio della maggioranza dell’opinione pubblica”. “Decine di giovani manifestanti erano stati assassinati da soldati superarmati con brutali metodi repressivi” per costringere la popolazione ad “accettare il potere coloniale”. Anche i 945 morti israeliani sono trattati alla stregua di uno specchio ustorio delle malefatte del governo. Il patè ideologico è lo stesso di Saramago, Garaudy, Josè Bovè, del compositore greco Mikis Theodorakis, per il quale "gli ebrei sono la radice dei mali del mondo", del parlamentare tedesco Martin Hohmann, secondo cui sono un popolo di criminali, del laburista scozzese Ray Davies, che ha detto che “Hitler ha occupato l’Europa per soli quattro anni, la Palestina lo è da quaranta”, e del liberale Jürgen Möllemann, che tempo fa ha elogiato i kamikaze palestinesi. Un odio viscerale verso gli israeliani di sinistra più moderati, come Yehoushua e Amos Oz, ma anche per Alain Finkielkraut, definito il “campione della banalizzazione del giudeocidio”. Non ha la sottigliezza di Ernst Nolte, che al Senato paragonò Israele al Terzo Reich con il concetto di ideocrazia. Semmai ha la malizia stolta di una Gretta Duisenberg, moglie dell’ex presidente della Bce, che ha fatto sapere che avrebbe raccolto sei milioni di firme per il suo appello contro Israele. Sarebbe una coppia perfetta con il poeta irlandese Tom Paulin e i suoi versi contro le “SS sioniste”. “Gli ordini erano di sparare per uccidere giovani armati perlopiù di fionde”. Non poteva mancare Jenin, “di che impazzire”, sospira, “pallottola in testa, furia omicida, completa assenza di freni”, epifenomeno di “una vasta operazione di pulizia etnica in Cisgiordania”. I kamikaze, con il “coraggio necessario per aggirare il blocco”, sono “una risposta alle sistematiche violazioni degli accordi firmati dai vari governi israeliani”. Ambulanze palestinesi prese a fucilate, ospedali sotto tiro, tortura, retate in stile Gestapo, deportazione, xenofobia, indifferenza per i feriti morenti, talk show razzisti, “anche il linguaggio è quello dei nazisti”. Israele costringe “uomini e donne a inginocchiarsi, correre nudi, strisciare nel fango, marchiarli sul braccio”. Il colono è il re di questa società, “miserabile ladro”, “Oas che ha preso il potere, ruba le terre, raccoglie le olive, apre strade e ne chiude altre, organizza spedizioni punitive. Ha diritto di vita o di morte sugli indigeni”. Dappertutto l’“urlio ebraico- militare” simile alle “grida del cow-boy alle vacche della sua mandria”. Robert Fisk, sull’Indipendent, ha descritto Tsahal come un nugolo di “bande armate che devastano tutto sulla loro strada”. Crollano quei tratti che “ne facevano una società relativamente civile”. Il nuovo simbolo di Israele, oltre a Masada, è il bulldozer della “conquista violenta del paese” da parte di “bruti in uniforme e imbecilli gallonati” come Mofaz, Yaalon, Lieberman e Landau, “irresponsabili avventurieri” come Netanyahu. Marchiature sul braccio, fili spinati, pastori tedeschi che mordono le palle degli arabi, torrette di guardia e persino un campo di concentramento, Offer. Israele è “il più grande ghetto della storia ebraica, superarmato di un’immensa paranoia e di bombe nucleari”, i suoi reattori sono tra “i più pericolosi dopo Chernobyl”. Censura scolastica e dei media, “recrudescenza della vita quotidiana e scomparsa delle ultime tracce di urbanità nei rapporti umani”. Si guarda bene dal fare nomi, ma “non è escluso che alcuni noti capi del crimine organizzato siedano nel parlamento di Israele”. Oslo era il “classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni”, la Road Map una schiava degli americani, il dominio Mapai dal 1948 al 1977 il frutto di una società con “un carattere totalitario”. “L’impunità di cui gode Israele in seno alla comunità internazionale è una delle ragioni della degenerazione interna della società israeliana”. Impunito al punto che l’Onu ha usato la parola antisemitismo per la prima volta il 24 novembre 1998. Lo stato è ormai in mano ad una “banda di teppisti” il cui “colpo di stato militare” è spalleggiato da forze politiche per le quali democrazia e libertà non contano niente, gli intégralistes e quella cataratta orribile di ebrei russi, accomunati da un “razzismo antiarabo senza limiti”. E’ irritato persino dalle guardie all’ingresso di negozi e ristoranti, quelli che ogni sera rischiano la pelle per due soldi. Siamo il paese degli Asor Rosa, dell’appello universitario di Bologna, dei tappeti rossi sempre pronti per il finto moderato Tariq Ramadan, della mostra di Fossoli, di Guido Piovene che da Parigi, per il Corriere, scrisse che "si deve sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura”. Del Malaparte inorridito dall’enorme “massa del proletariato giudaico”, dei miserabili di Paolo Monelli “che tengono stretti i loro quattrinelli nella pezzuola o nel pugno”, e di Giorgio Bocca, che nel 1942 si domandava: “quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere all'idea di dovere, in un tempo non lontano, essere lo schiavo degli ebrei?". Il popolo che si è bevuto tutte le bevande conformiste del proprio tempo, compresa quella turpe dell’antisemitismo. Ma a che punto è il livello di odio ed esasperazione verso Israele, se i Ds di Milano e molte università italiane hanno sentito il bisogno di invitare Warschawski, e una casa editrice come la Bollati Boringhieri ha voluto patrocinare le violente gratuità di chi vuole diffondere un messaggio semplicissimo: Israele=Terzo Reich

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