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Walter Benjamin e Gershom Scholem
Recensione di Diego Gabutti Walter Benjamin e Gershom Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, Adelphi 2020, pp. 478, 26,00 euro, eBook 12,99 euro. Più del libro che Gershom Scholem, nel 1965, dedicò al suo lungo sodalizio con Walter Benjamin, è questo carteggio a meritare il titolo Storia di un’amicizia. Da noi, invece, ha avuto altri titoli: l’edizione Einaudi, del 1987, era intitolata Teologia e utopia, come un tema scolastico cui segue lo svolgimento, mentre l’edizione Adelphi, appena uscita e impreziosita da una magnifica postfazione di Saverio Campanini, professore di lingua e letteratura ebraica a Bologna, s’intitola Archivio e camera oscura (citando una lettera del settembre 1933, dove Benjamin scrive che «non c’è ragione di ritenere che sarò mai in grado di far seguire alle riflessioni di metodo non magistrali che presento a te – e a nessun altro – gl’inizi di un’esemplificazione, per quanto modesti. Conservali perciò nella più remota camera oscura del tuo archivio»). Amici e complici fin dalla giovinezza, Scholem e Benjamin non potevano essere più diversi e insieme più simili. Mentre il primo, Scholem, era uno studioso della kabbalah, di cui raccontò la storia (ma in particolare le gesta degli eroi e dei felloni che ne animarono le vicende) in testi accademici che si leggono come romanzi di Dumas père, il secondo era uno strano marxista: un marxista «trascendente» e visionario, spiccatamente incline alla speculazione teologica. Era anzi «il più strano marxista», scrisse Hannah Arendt, «che questo movimento, non povero di stranezze, abbia prodotto» (H. Arendt, Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle, in Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino 2011).
Gershom Scholem, Walter Benjamin Bertolt Brecht, che negli ultimi anni fu amico di Benjamin e che lo aiutò nei momenti difficili, pensava che tutto fosse «mistica» nell’«atteggiamento contrario alla mistica» di Benjamin. «Tale è la forma», chiosò l’autore dell’Opera da tre soldi e della Vita di Galileo nel suo Diario di lavoro alla data 27 luglio 1938, «in cui viene costretta ad adattarsi la concezione materialistica della storia! È piuttosto raccapricciante». Più efficacemente, e con una maggiore comprensione della complessa attività intellettuale dell’amico, Scholem scrisse in un altro libro dedicato a Benjamin (Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi 1978) che «egli avrebbe in fondo acconsentito di buon grado, sia pure con una riserva dialettica, a essere proclamato padre della Chiesa, ovvero rabbi marxista, come si usa dire oggi. Il gesto del pensatore esoterico, che Adorno ed io abbiamo rilevato in lui, gli derivava dalla sua capacità di creare frasi autorevoli, e – s’intende – implicitamente e sostanzialmente degne anche di citazione e d’interpretazione. Ciò che vi è di evidente in esse si collega a un loro carattere affatto enigmatico, il che non accade in nessun altro degli autori che oggi vengono frequentemente citati insieme con lui (da Bloch o perfino Lukács a Brecht e Adorno). È il frasario tratto dalla Sacra Scrittura d’un “adepto”, appena appena travestito, razionale e mistico insieme, come si conviene a proposizioni di tal genere». A differenza dei sionisti di fine secolo, come pure dei marxisti raziocinanti e lucidi della vecchia scuola, prima che l’antisemitismo andasse al potere in Germania e che il bolscevismo trasformasse in carbone (come avrebbe detto Marx) l’oro puro del movimento socialista, i loro eredi novecenteschi erano passati attraverso una sorta di portale metafisico, che s’era aperto nel corso rovinoso della Grande guerra, e adesso erano prigionieri d’una dimensione oscura, espressionista, come gli ospiti del principe Prospero nella Maschera della morte rossa di Poe. Con Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi 1996, fu Karl Kraus ad accorgersene per primo. Anche il teatro e il cinema tedeschi, insieme ai dadaisti e ai surrealisti, diedero chiarissimo segno d’aver capito, o almeno intuito, che specie di corso sciagurato, tra Metropolis di Lang e Nosferatu il vampiro di Murnau, aveva preso a sorpresa la storia del mondo. Idem Scholem e Benjamin, che ridussero le rispettive Weltanschauung, la mistica ebraica e «la concezione materialistica della storia», come la chiamava Brecht in gergo stalinista stretto, al loro nocciolo di verità: l’esatta coscienza che i letterati, così come gli storici e i militanti delle buone cause, avrebbero dovuto percorrere la stessa strada, una strada senza luce, e mai così pericolosa.
Non si dovevano più combattere gli antisemiti o i capitalisti ma i demoni, le lamie e gli orchi, come nel Signore degli anelli di Tolkien, un altro che in quegli stessi anni osò fissare lo sguardo nell’abisso. «Per quanto incerto sia il futuro alla quale la consegniamo» – scrisse Benjamin nei primi giorni del 1940 – «ogni riga che riusciamo a pubblicare è una vittoria strappata alle potenze delle tenebre». È «agli ebrei, dopo tutto quello che hanno dovuto passare», che Benjamin si riferisce pochi giorni più tardi, nell’ultima lettera che spedisce a Scholem da Parigi, tre mesi dopo lo scoppio della guerra e otto mesi prima di suicidarsi a Portbou, al confine tra Francia e Spagna. Ma il suo estremo messaggio nella bottiglia del Novecento – la sconsolata osservazione che «il numero di quanti riescono a orientarsi in questo mondo s’assottiglia sempre più» – è un aforisma buono per tutti, per gli ebrei come per i gentili. Nessuno scampa né può sottrarsi alla tempesta che incombe sull’intera Creazione. C’è un generale tracollo di tutte le forme sociali, l’illuminismo si è rovesciato nel suo opposto e gli umani – manovrati da demagoghi e negromanti, che li hanno ridotti a «Gesterrevue, una rassegna di fantasmi» – vagano come zombie tra le rovine della civiltà liberale, dove si vive nel terrore o, peggio ancora, dove «la vita non vive», come sentenzia Adorno nel più celebre (e più caramelloso) dei suoi Minima moralia. Alla volontà di potenza cade la maschera e si rivela per quel che è sempre stata: abominio e desolazione. È di questa metamorfosi dell’Europa che rende conto il carteggio tra Scholem e Benjamin. Protagonista assoluto del carteggio, in virtù della sua vita troncata e del destino a lungo incerto della sua opera, contesa da tifosi e censori, Benjamin fu abbastanza lucido nel vedere il lato tragico della sua conversione al marxismo e il lato oscuro dello stesso marxismo, che pure lo aveva accolto tra le sue fila, e che non di meno risultava «concretamente» indistinguibile, ai suoi stessi occhi, dal fascismo che gli dava la caccia, come a tutti gli altri ebrei. In un Appunto su Brecht del novembre 1939 (dove anche lo stesso Brecht appare meno ingenuo, riguardo alla natura dell’URSS, di quanto comunemente si sia portati a credere) scrive con disperata lucidità che «molto giustamente [Heinrich] Blücher [secondo marito di Hannah Arendt] richiama l’attenzione sul fatto che alcuni momenti del Libro di lettura per gli abitanti della città di Brecht non sono altro che un resoconto dei metodi del GPU. […] Negli studiati passi di queste poesie si riflette il modo di procedere che accomuna gli elementi peggiori del partito comunista con i nazionalsocialisti più privi di scrupoli. Blücher ha ragione là dove, criticando le mie considerazioni sulla terza lirica del Libro di lettura per gli abitanti della città, afferma che non è stato Hitler a introdurre l’elemento sadico nella prassi qui descritta sugli ebrei invece che sugli sfruttatori. Quest’ultimo era già presente fin dall’inizio in quell’“espropriazione degli espropriatori” che Brecht stesso descrive».
All’ombra dei totalitarismi, che riempiono l’Europa di campi di lavoro e di camere a gas, l’umanità intera era a rischio di Shoah. È l’Europa di Kafka, un’Europa che si popola di streghe, mostri, leviatani e ciascuno mette in guardia ogni altro dal futuro che si prepara. Benjamin e Scholem parlano di libri, di plagi; si scambiano saggi e recensioni; indulgono al pettegolezzo letterario; scherzano, ricordano la loro giovinezza, sparlano degli assenti, non vedono l’ora di vedersi e non si vedono mai (salvo che per poche ore in quasi vent’anni). Ma su ogni riga del carteggio, che rimbalza dalla Palestina sotto mandato britannico all’Europa minacciata dal fascismo, pesano «le potenze delle tenebre», alle quali non c’è modo di strappare «una vittoria». Ci sarebbe altro da dire, naturalmente: il suicidio di Benjamin e il lungo oblio che ne segue, la polemica (a tratti furibonda) tra Hannah Arendt da una parte e Adorno-Scholem dall’altra circa il destino della sua opera, su chi ne sia il vero erede, su chi la rispetta e chi invece la distorce. Ma se la storia continua, se alla fine sarà resa giustizia ai vivi e ai morti, il carteggio finisce qui, quando a Benjamin non restano più vie di fuga, né riesce più a ricorrere alla sua consueta e brillante tattica di logoramento, come la celebra Brecht nella commossa e sobria poesia che gli dedica in mortem (B. Brecht, A Walter Benjamin, che si tolse la vita mentre fuggiva davanti a Hitler, in B. Brecht, Poesie politiche, Einaudi 2015):
«Stancare l’avversario, la tattica che ti piaceva
quando sedevi al tavolo degli scacchi, all’ombra del pero.
Il nemico che ti cacciò via dai tuoi libri
non si lascia stancare da gente come noi».
Diego Gabutti |
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