Riprendiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 16/02/2020, a pag. 6, con il titolo "I professori sospesi nell'anno 1938", l'analisi di Salvatore Settis.
In ricordo dei professori universitari ebrei cacciati da tutti gli atenei italiani nel 1938. Ci furono anche coloro che cercarono di approfittare di questa ingiustizia per ottenere una cattedra .. " Cacciato il giudeo, la cattedra spetta a me.." da una lettera a Mussolini. Tra questi ultimi anche alcuni docenti che dopo il 1945 diventeranno "maestri di antifascismo"...
Ecco l'articolo:
Salvatore Settis
Il nostro passato vive (o muore) in un instabile equilibrio fra i lampi del ricordo e gli abissi dell'oblio, ma anche nella spola continua fra la memoria (individuale e collettiva) e la storia. Il corto circuito fra eventi, immagini, personaggi, emozioni non va mai dato per scontato: richiede attenzione e cura quotidiana, come la salute e la vita di un giardino, di un corpo vivente, di una comunità di umani. Solo così gli eventi del passato, pur schiacciati e frantumati dal peso del presente, possono interrogarci ancora, costringerci a pensare, spingerci a progettare il futuro con una qualche saggezza. La nostra memoria non archivia né restituisce (come fosse quella di un computer) intatte sequenze di eventi; al contrario, ne spezza il ricordo, ne digerisce i frantumi, li elabora, interpreta e riusa. Li scarta, li dimentica e (talvolta) li ritrova. Cresce intanto una nuova specie di oblio, che assorbe frammenti di memoria mali svuota di valore, appiattendoli e polverizzandoli. Di questo processo e dei suoi rischi ci sfugge la portata, perché esso nasce da un fenomeno che ci sovrasta e che non sappiamo controllare : la compressione spaziotempo.
Via via che l'estensione spaziale del nostro sguardo si allarga per adattarsi agli orizzonti di un mondo globalizzato, lo spessore temporale della nostra memoria culturale tende, simmetricamente, a ridursi. Questo cambiamento di prospettiva innesca un'invasiva concentrazione sul presente (che i francesi chiamano présentisme), una vera e propria mutazione antropologica della memoria sociale, in cui l'oblio sembra a un passo dal vincere la lotta contro la storia. Perciò la memoria del passato non solo può, ma deve calarsi in forme rituali e istituzionali. Perciò è stata e resta importante la pur tardiva cerimonia delle «scuse», con cui i rettori delle università italiane hanno proclamato in pubblico, nel cortile pisano della Sapienza, la gravità della colpa di cui tutti gli atenei del Regno si macchiarono obbedendo con vergognosa solerzia alle crudeli e insensate leggi razziali del fascismo, firmate dal Re a Pisa nel 1938. La successiva iniziativa di Michele Emdin, Barbara Henry e Ilaria Pavan (che questo libro riflette), non è stata la mera prosecuzione di quella giornata, che pur essa presuppone, ma vi ha introdotto una torsione emozionale se possibile ancor più forte. Passando dalla dimensione collettiva e istituzionale degli eventi (il censimento degli espulsi, relazione a cui ho partecipato come discussant) all'evocazione di singole biografie dei docenti ebrei scacciati dall'università di Pisa, questo evento si è mosso fra il livello dell'informazione storica e il registro delle emozioni. Tanto più che a ricostruire le Vite sospese di Cesare Sacerdotti, Bruno Paggi, Paul Oskar Kristeller, Ciro Ravenna, Giulio Racah, Myriam Plotkin, Naftoli Emdin sono stati studenti di discipline giuridiche e mediche, indotti alla ricerca d'archivio non dal mestiere per cui stanno studiando, ma solo dall'urgenza di offrire una testimonianza documentata di sofferenze e ingiustizie che paiono antiche ma che dobbiamo sentire ancora vive. La «maieutica del ricordo» (così Michele Emdin) si è così dispiegata non solo in biografie singole e in saggi di portata generale (come quelli dello stesso Emdin, di Barbara Henry, Ilaria Pavan, Michele Battine, Dario Disegni), non solo nelle pagine dei rettori degli atenei di Pisa e Lucca, ma anche in intense espressioni artistiche, come il monologo Numeri di Annick Emdin e l'installazione Vite sospese. Un percorso, una memoria, dove Ursula Ferrara ha trasfigurato le foto d'archivio degli ebrei perseguitati a Pisa in immagini ferite che ne riflettono il dolore e il destino. È dunque l'impianto stesso di questo libro che ne fa la ricchezza e l'eloquenza, evidenziando la sua natura corale, il mescolarsi di voci di più professioni e più generazioni, la spola dall'individuale al collettivo, dall'archivio all'arte figurativa, dal giudizio storico al commento etico, dall'esperienza e dai timori dell'oggi alla ferma e dolorosa memoria di un passato con cui non dobbiamo mai illuderci di aver chiuso i conti.
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