Recensione di Giulio Meotti sul Foglio del 20-02-04, pag. 2.
IL GENIO DELLA MUSICA CHE LASCIAVA UNA SCIA DI PROFUMO DIETRO DI SE'
Capi d’accusa contro lo “sbirro zelante dell’imperialismo e del terrore tardo-borghese”: autoelogio e fantasmagoria, fatras scenico, pompa enfatica ed inconscio che si fa ideologia, postulazione di pietà, decoro istrionico e vocio popolare prefascista, umiliazione e piacere ormai morbo, baccanali oniriche e sororali di eros e storia, humour da dilettante e afflato agonico che stomacò Liszt e Nietzsche, mitologia che sfocia nel conformismo e meraviglioso che si dimostra menzogna. All’imputato, Richard Wagner, l’ellittico e conciliatorio pm, T.W. Adorno, riconobbe nella sua arringa almeno l’epocale nesso fra emancipazione sessuale e riscatto politico, contro “la piccola società poliziesca di Wahnfried, esacerbata da inconfessabili impulsi” e al caldo del minuto intérieur borghese. Potremmo aggiungere la spietata analisi dell’era atomica in “Arte e Religione”, scritta sulle barricate di Dresda nel 1849: “le forze più brute della natura vengono messe artificialmente in gioco; e dal gioco può scatenarsi una volontà cieca, che rompa gli argini con violenza elementare. Uomini obbedienti fino al silenzio servono questi mostri. C’è da temere che un giorno tutto ciò, insieme con l’arte, la scienza, il coraggio, l’onore, la vita e gli averi, voli in aria per improvvisa distrazione”. Un altro sostituto procuratore della cultura europea, György Naphta-Lukács, boia dell’apatia quietista di Schopenhauer e del misticismo selvaggio di Schelling, aveva già sentenziato sull’“involgarimento mediante la profondità” di Wagner. “Wagner l’oscuro” (Adelphi, 42 euro, 454 pagine) è il nuovo vastissimo saggio che un grande critico musicale come Mario Bortolotto ha dedicato al compositore tedesco. Bortolotto, già autorevole prefatore del Versuch di Adorno ed autore di un saggio sul Der Fall Wagner di Nietzsche, recandosi idealmente in quella serra di fanatismo e genialità neopagana e stregonesca che fu Bayreuth, illumina di comprensione la voragine della décadence europea e introduce anche i lettori più profani tra partiture, zone oscure e minuzie letterarie. Liberando l’opera di Wagner dai lignei sarcofaghi della musicologia statica e collocandosi nel solco di una tradizione critica che fu di Agostino, Rousseau, Kierkegaard, Schopenhauer, fino a Jankelevitch.
Guy de Maupassant, a Palermo, si accorse che Wagner lasciava una scia di profumo dietro di sé. Col tempo un vero incenso per esaltati e ispirati, “profluvie di cigni in tutta l’estensione della Romantik, toccando il Novecento di Valéry”, la moda “al Lohengrin” a Vienna, l’Ariel Musico, il clacson alla Donner del Kaiser. E le rovine d’Europa, la linea Siegfried, l’operazione Walküre. Breker scolpì per il fuhrer una testa bronzea di Wagner, che ispirò con la sua musica dell’avvenire anche le adunate austro-socialiste di Victor Adler. Gustosissima l’aneddotica sui suoi gusti musicali: ha paura di Berlioz, lo teme, detesta Brahms e Schumann, Kant era uno stupido, risibile il culto di Gluck e Handel, adora Bach e le sue Passioni, ma si chiede come sia possibile invece che la gente impazzisca per questo Chopin, dov’è finito il “violento ardore”? Aveva forse ragione Gide, si chiede Bortolotto, con la sua pruderie ugonotta a giudicarne immorali le ninnole? Ambiguo il rapporto con Beethoven, per il quale Adorno coniò la micidiale formula “Hitler e la Nona. Seit umzinglet Millionen”, affratellati in un solo abbraccio, milioni di uomini. Ama la Missa Solemnis ma non la Nona, gli ricorda una tarantella. Fu infatti il principale genio tragico tra Goethe e Ibsen, in un’epoca in cui i collettivi marciavano al suono dell’Inno alla gioia, padri di tutti i girotondi. Mentre il suo scriver fughe la giudica una debolezza da plaudite amici, comoedia est finita. Letture sparse, fugaci, esagerate, un onnivoro scalmanato: Sofocle, Platone, le Upanisad, Pindaro, Goethe, Schopenhauer, de Maistre, Gobineau, di cui fu amico. Considera la Cappella Sistina “una mostruosità”. Rimpiange le liturgie civiche dell’antica Grecia e fu il primo a portare l’attore in musica e a coltivare un suo pubblico. Persino la sua folta barba e il cappello floscio, manniano e da buffone, sfidarono l’Europa filistea delle corti. Impulsivo come un bambino, soprattutto in politica. Amico di Bakunin, pensa che “la forza di quel movimento può risiedere solo nel distruggere”. Scrisse che “dovunque giungo sboccia dalle morte pietre nuova vita. Tutto ciò che ora esiste deve sprofondare. La messe è matura e io sono la mietitrice”. Ma considerava la monarchia “la garanzia più completa di libertà”.
Nel capitolo “La volontà al genio”, Bortolotto ripercorre con dovizia storica e letteraria vertiginosa la nascita di questo geniale istrione partendo dalla prima operetta scritta a vent’anni, Le fate. E i rapporti con la gelosa moglie Minna, la storia con Mathilde, la dilapidazione del denaro prestato. “Quale poeta sono mai”, scrisse di sé nel 1860, e più tardi esclamò: “insieme a Bismarck sono l’unico Tedesco che valga qualcosa”. Ambiguo in tutto, nel rapporto con l’ebreitudine, lui stesso nano forse ebreo antisemita circondato dai mille Spielman, da Samuel Lehrs, filologo che gli dischiuse i tesori germanici, a Heinrich Porges, segretario e “decano dei wagneriani”. Una nota di intimità allignava nel suo antisemitismo. Sulla sua giudeofobia si è scritto tanto, ma è ancora forte l’indecisione su un punto che dovrebbe essere invece ormai acclarato, e che Bortolotto contribuisce a rendere più trasparente. E cioè che essere, come Nietzsche, un critico feroce, sul piano della più pura inattualità, del tronco giudaico- cristiano, non equivale ad essere, come Wagner, un deciso antisemita sul piano della più losca attualità politica. Sosteneva che “gli ebrei hanno conservato il senso dell’autenticità che i Tedeschi hanno perso”, ma poi li accusava di “appassionarsi sempre nell’interesse egoistico della vanità o del profitto”, capace di far seguire una battutaccia alla notizia della morte di centinaia di ebrei a Vienna in un incendio. Fu avverso in modo inguinale a Mendelssohn e Meyerbeer, detestava persino la pronuncia semitica, quei “suoni acuti, fischianti e stridenti, ciarlare confuso e insopportabile”. Ma furono anche i suoi più fedeli allievi e interlocutori. Come Daniel Barenboim, corsaro contro l’interdizione pubblica dalle sale musicali d’Israele.
Bortolotto offre al lettore un affascinante compendio dei cinque cardini della magia wagneriana: “il mondo di Venere, il culto cavalleresco di Maria, l’alterezza del feudalesimo germanico, l’individualità di Tannhäuser quale terreno di ossessioni, la redenzione cristiana”. Su tutto, il bruciante dominio maschile al fianco della teoresi “femminista”: Rienzi, Wieland, Siegmund, Parsifal, Lohengrin. Teoresi hollywoodiana aggiungiamo noi, perché la micidiale macchina di situazioni esistenziali è kitsch wagneriano, Bellezze al Bagno è una reprise delle Fanciulle-fiore e le wamp laccate sono figlie di Kundry. Senza dimenticare i furores sentimentali tra il dotto di Pforta, l’uomo fatale della cultura tedesca la cui prosa si fece ditirambo, e l’eschileo “Cagliostro della modernità”. L’idillio di Tribschen si chiuderà all’insegna di un’offesa mortale quando Wagner “si prosternò, derelitto e a brandelli, davanti alla croce cristiana”. Per questo Nietzsche si rivolse al plesso musicale, chiaro e solare, della Carmen. Bortolotto ci guida tra carte, impasse, ricordi, incontri, tra un’estasi non trovata e un’arte del tramonto in verità spuria, tra acribie furenti e tradimenti lenticolari. Chevalerie mystique, ghibellinismo della coppa sacra, pane e vino di Hölderlin, epopee persiane e compassione aria, ateismi postulatori e, adombrate, le nuove virate di Ernst Bloch, Klossowski e dell’esiliato Blanchot. Wagner per Bortolotto è un maestro di “inafferrabili fugacità, nebule intangibili, fibrillazioni tessutarie, collisioni cromatiche, microcosmi sfumanti in un magmatico habitat sinfonico”. Da lì a poco, ebbe a dire Adorno, “il grande stile del futuro non adornerà la vita, ma la formerà. L’uomo imparerà ad edificare palazzi del popolo sulla cima del Monte Bianco e sul fondo dell’Oceano Atlantico”. La borghesia, nel Ring, l’intera Europa, stava sognando infatti il proprio tramonto come unica salvezza. Una civiltà giunta alla fine, che assommava umano e disumano, avrebbe avuto nella sua musica il simbolo del crollo imminente, il suo canto del cigno. “Bisogna volere l’inevitabile e compirlo noi stessi”, e profetizzò il suo Wotan: “una cosa sola ancora voglio, la fine, la fine”. Un altro post-romantico, Theophile Gautier, stava gridando plutot la barbarie que l’ennui. Il controsogno è popolato da Sciti e Vandali che si dissetano nelle fontane delle Tuileries. Lasciando il passo all’ultima parola possibile, non al “ricordo tenuto stretto, ma al ritorno del dimenticato, svastiche solari, falci lunari, l’attrazione fallica dei pugnali, l’orrore tedesco come bric-à-brac gotico, l’aguzzino come trovarobe”. O semplicemente allo specchio passivo di Strawinskij, che può solo prendersi cura di épater le burgeois. O alle ballate della disfatta di Mahler, l’erotismo dell’autodistruzione, il cuore che non regge più e il destino non più nelle mani dell’uomo, “i calpestati, l’avamposto perduto, il soldato sepolto al suono delle belle trombe, il povero tamburino”.