Viaggio nell'Iran fondamentalista che odia l'Occidente e le libertà Commento di Claudio Gallo
Testata: La Stampa Data: 12 febbraio 2020 Pagina: 14 Autore: Claudio Gallo Titolo: «Nella Teheran che celebra Khomeini: 'Contro l'America fino alla fine'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/02/2020, a pag. 14, con il titolo "Nella Teheran che celebra Khomeini: 'Contro l'America fino alla fine' ", il commento di Claudio Gallo.
E' bene raccontare l'Iran fondamentalista e fanatico dando la parola ai suoi rappresentanti, in modo da dare ai lettori italiani la possibilità di conoscere quello che realmente è il regime di Teheran.
Ecco l'articolo:
Claudio Gallo
Qassem Soleimani con Ali Khamenei
Quarantuno anni fa l'ayatollah Khomeini, di ritorno dall'esilio parigino, creava in Iran una teocrazia sciita. La religione tornava incredibilmente a signoreggiare la politica, risalendo la corrente della storia. Oggi l'anniversario della Rivoluzione islamica coincide con il quarantesimo giorno della morte del generale Soleimani, assassinato dagli americani. Nelle cadenze del lutto persiano il numero 40 è una delle ricorrenze cruciali che ieri infatti ha colorato la giornata di celebrazioni in più di 5 mila città in tutto il Paese. Nelle strade I ritratti del «martire» si mescolavano alle bandiere nazionali. In una Teheran infarinata di neve, col termometro a meno quattro, la gente comincia a riversarsi verso le 8.30 nelle strade lungo l'asse centrale che da piazza Imam Hussein va a piazza della Libertà, Asadi: il palco dei grandi discorsi. Le folla che si sta ingrossando è punteggiata di chador neri e barbe scure, ritratti dell'Imam Khomeini, dell'odierno Rahbar, la Guida suprema Khamenei, tricolori iraniani e ritratti del comandante dei pasdaran ucciso in Iraq. Tra le teste ondeggianti anche un manichino di Trump, coi capelli bianchi alla Andy Warhol. I pullman che portano alla manifestazione sono gratuiti, come I chioschi che ristorano i manifestanti. Il sonoro è fatto di Allahu Akbar, «morte a Israele», «morte all'America», «resisteremo fino alla fine». Questa massa, per lo più di umile condizione, è uno dei motivi, insieme con la brutale determinazione degli apparati di sicurezza, per cui il «regime change» auspicato dai nemici del Paese non sembra imminente nonostante le sanzioni mordano senza pietà e una parte della popolazione sia sfiduciata. «Vogliamo donare il sangue delle nostre vene al Rahbar», canta spensieratamente un gruppo di ragazzine. Intorno alle 11 Rohani comincia il discorso da un palco sulla destra, rispetto al flusso principale dell'enorme corteo, del monumento di piazza Asadi (stime da centinaia di migliaia a un paio di milioni, comunque non così impressionanti per una città da 18 milioni di abitanti). Il presidente ha appena preso a parlare che un certo numero di manifestanti, più conservatori e arrabbiati, abbandona la piazza. A torto o a ragione, è, insieme con il ministro degli Esteri Zarif, uno dei politici più impopolari del momento. Rohani ha toccato le corde inevitabili dell'anniversario riuscendo però con sottigliezza a parlare obliquamente di oggi. Ricordando l'odiato shah, ha infatti detto che non ci sarebbe stata la rivoluzione: «Se il regime corrotto (di Mohammad Reza Pahlavi, ndr) avesse dato al popolo la possibilità di scegliere». E poi: «La rivoluzione accadde perché le porte delle elezioni furono sbarrate. Quella chiusura portò la gente a spezzare le catene attraverso una grande rivoluzione e a riaprire la strada al voto». Il discorso vuole concludere che alla fine la Repubblica islamica è stata una libera scelta popolare. Ma, chi ha orecchie da intendere intenda, è sembrato a molti anche un riferimento all'attualità, dove il Consiglio dei Guardiani ha bocciato un numero record di candidature alla elezioni politiche del 21 febbraio, specialmente quelle dei riformisti alleati del presidente. Un messaggio al popolo ma anche alla Guida suprema che lo aveva appena indirettamente attaccato per le critiche alle sforbiciate del Consiglio. La parte dedicata al grande Satana americano corre su binari più canonici: «Per l'America è insopportabile che una grande nazione sia stata vittoriosa e abbia cacciato gli americani dalla sua terra - ha detto riferendosi alla Rivoluzione del 1979 - Per 41 anni hanno sognato di tornare nel nostro Paese». Una resistenza che per l'oratore si basa sull'unità del popolo iraniano. Unità è la parola chiave con cui il sistema martella la società del dopo-Soleimani. Lo ha ripetuto anche ieri in televisione Hadi Khamenei, fratello della Guida suprema: «La sicurezza del Paese e della regione dipende dalla nostra unità». La folla poco per volta si scioglie, passano le famiglie con i passeggini, le scolaresche, gli impiegati statali che non potevano non venire. Ma come vedono il futuro queste persone leali all'autorità in un momento così difficile. «Il domani sarà radioso», dice il barbuto Pejman accanto alla moglie nascosta dal chador e il figlio sulla carrozzina impavesata di colori rivoluzionari. «Vogliamo solo che questo governo se ne vada». Dalla vetrina di una libreria lì accanto, Samuel Beckett occhieggia da una copertina.
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