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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Mordechai Richler - Solomon Gursky è stato qui
MORDECHAI RICHLER

"Solomon Gursky è stato qui"

Ed. Adelphi - € 19



Recensione di Giulio Meotti, Il Foglio 12/02/04, pag.2



"Solomon Gursky non ha conquistato il mondo, peccato"



Con Barney aveva detto tutto, le sue idiosincrasie e i suoi “cazzo” hanno conquistato lettori e critica di mezzo mondo, oltre che questo giornale. Non è avvenuto con “Solomon Gursky è stato qui” (Adelphi, 596 pagine, 19 euro), assente persino tra i trentacinque best seller del 2003. Non se lo meritava. In

Canada, la patria di Mordechai Richler, è considerato uno dei suoi romanzi più riusciti, forse il migliore, sicuramente il più intrigante. Il New York

Times l’ha salutato come un capolavoro. E’ sudamericano, una matrioska che abbraccia più di un secolo, pieno di flashback, scene sconnesse e capitomboli narrativi. La vicenda è esilarante, cinematografica quanto le avventure del giovane ebreo De Niro in “C’era una volta in America”. Parla di un’ossessione, quella di Moses Berger, enfant prodige e Rhodes Scholar che finisce alcolizzato, per Solomon Gursky, che insieme ai fratelli, Bernard e Morrie, mette in piedi il più grosso traffico di liquori del Canada. E’ un’epica familiare che ricalca quella del contrabbandiere Samuel Bronfman, Whisky Man capo della Seagram’s fino al 1971 e padre di quell’Edgar presidente del World Jewish Congress, premiato da Clinton nel 1999 con la più alta onorificenza degli Stati Uniti, la medaglia della libertà. Era una cosa normale durante il proibizionismo, dopo diventavi rispettabile e ricevevi gli auguri da Golda, Kissinger e un paio di Rothschild. “Jay Gould o J.P. Morgan o Rockefeller erano

banditi molto peggiori”, scherza Richler. Quando Bernard morì venne esposto nella Gursky Tower e, “poiché il terzo giorno non risorse, fu debitamente sepolto”. Era nato in una casupola della prateria, il primo hotel a ventun anni fino al miliardo di dollari annuo disseminato in quindici diverse nazioni. E’ come nel suo amato hockey, il disco passa di continuo agli eredi, figli e nipoti, Lionel, Nathan, Barney, Henry, Isaac e si perde nei meandri delle gelosie e di quello spassoso mix di pastrami, tic, comicità sessuale e autosfottò di cui sono pieni i suoi romanzi. E’ anche l’occasione per Richler di parlare del suo Canada, “triste progenie di popoli sconfitti, franco-canadesi

consumati dall’autocommiserazione, discendenti degli scozzesi in fuga dal duca

di Cumberland, irlandesi dalla carestia ed ebrei dai pogrom, il naso appiccicato alla vetrina del negozio di caramelle, spaventati dagli americani da una parte e dalla prateria dall’altra”. Richler, con il suo solito incipit beffardo da raconteur, sceglie sempre un alter ego incompiuto, quindi tremendamente umano. Qui è Moses Berger, come lui anglofono di Montreal che abita in Jeanne Mance Street, entrambi fumano il sigaro, bevono, scrivono per vivere e hanno vissuto a Londra. Moses, che assomiglia al Boogie Moschovitch della Version, cresce facendo critiche socialiste al Conte di Montecristo, col mito del New Statesman, le vignette del New Yorker, e come il padre, quel leccaculo venduto di L.B., della cricca di Bloomsbury, “scrittori che vivevano nel lusso grazie a rendite private e conoscevano le migliori annate di Bordeaux”. Ci provava in tutti i modi, ma le buste continuavano a tornare indietro da Partisan Review e Horizon. Il suo rapporto con il New Republic finisce nella cassetta della posta, tra le altre riviste. Veniamo a Solomon. Ha solo nove anni quando il nonno, Ephraim, lo aspetta fuori dalla scuola, gli occhi infuocati e la puzza di rum. Stavano andando in Alaska, per imparare le usanze Inuit. Ephraim aveva già fatto parte di una spedizione per trovare il passaggio a Nordovest, e già che c’era aveva fatto proseliti e convertito gli eschimesi alla sua sarcastica e personalissima religione ebraica.



Abiti da principe russo e pelli di castoro

Da lui, naturalmente, sarebbe disceso il Messia. Il figlio, Henry, sposa un’eschimese, e va bene, dopo tutto Rut, bisnonna di David, da cui per il Talmud discenderà il Messia, non era ebrea. Anche Richler si era sposato con una non ebrea, facendo incazzare tutta la sua famiglia Lubavitch. Anni dopo dei ricercatori ci tornarono e trovarono uno strano scialle. Moses lo riconobbe,

era un tallit, il tipico indumento da preghiera degli ebrei ashkenaziti. Scrisse alla Arctic Society e fece incazzare tutti, un membro della famosa spedizione era ebreo, giammai. Solo Richler poteva inventarsi una cosa del genere, tzitziyoth che scendono sopra le pelli di montone. Stupendo. Ephraim è il tipico Charlot che va in cerca di fortuna come quelle statuette che si regalano a chi ha appena fatto il bar Mitzvah. Viene da Minsk, è il più sbalorditivo cantore della sua sinagoga, i pii ortodossi sono sconvolti dalla voce di quest’ebreo che invece di indossare il caffettano si veste come un principe russo. Ma le storie di Richler non sono mai lineari: lo ritroviamo in galera a Newgate, a contrabbandare pelli di castoro a San Pietroburgo, fucili a New Orleans e a fare il pianista in un saloon, mentre ruba l’oro ai cercatori. Ovviamente ce l’hanno tutti con i francesi, “più tengono in alto il naso profumato, più è probabile che la loro bisnonna fosse una file du roi, una puttanella spedita qui dal re per sposare un soldato e fare venticinque figli prima di compiere quarant’anni”. Ora il disco passa a Sir Hyman Kaplansky, collezionista di libri rari che Solomon conosce a Londra aitempi del college e che assume i contorni di un’affascinante figura paterna. E’ anche la storia di questo sofisticatissimo ebreo egiziano, speculatore sul mercato libanese, baronetto tory nonché fanatico dell’aviazione. Dà una rendita a Moses per andare nei territori artici a cercare eschimesi che di cognome facciano Gorski, Girskee o Gur-ski. Per Bernard, “i Gursky non sono arrivati qui in terza classe per scappare da qualche schifosissimo shtetl”. Gli avi di Richler, di Barney, di Solomon e di Duddy Kravitz vengono infatti tutti dalla propaggine più orientale del vecchio mondo imperial-regio, la quotidianità inappariscente, silente e vissuta di posti sperduti in Galizia e Transnistria, cui si va incontro con volti rugosi e labbra serrate, la pipa sempre tra i denti, l’andirivieni del gioire e del disperare del vecchio incanutito nella guerra della vita, e in quella contro Amalek. E i romanzi di Richler, come questo splendido rompicapo, con i suoi abili giocolieri e tristi funamboli, celebrano la baldoria accidentata e l’uscita dagli sgualciti shttels dei padri, con il rischio di “trasformarsi in una vecchia illustrazione scoutista di Norman Rockwell”. Alla fine della storia un uccello nero si dirige a Nord, verso la libertà.

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