Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/02/2020, a pag. 2, con il titolo "L'Iran dopo Soleimani: più potere ai pasdaran ma cresce lo scontento", il commento di Claudio Gallo; a pag. 3, con il titolo 'Siamo gli eredi del generale, useremo i missili contro i nemici' l'intervista al fanatico Sam Torabi.
Ecco gli articoli:
"L'Iran dopo Soleimani: più potere ai pasdaran ma cresce lo scontento"
Claudio Gallo
Qassem Soleimani con Ali Khamenei
L'assassinio del generale Soleimani, il martirio come si dice qui a Teheran, potrebbe essere un punto di svolta per la Repubblica Islamica a quarantun anni dalla sua fondazione. Il Jcpoa, l'accordo nucleare, chiamato così dal suo astruso acronimo, è di fatto morto e sepolto insieme con le speranze che aveva creato nel 2015 di una ripresa dell'economia, di una vita normale. Le startup nate allora sono già sparite come fiumi disseccati. La capitale è tranquilla, sempre caotica, incorniciata da un orizzonte vagamente sabaudo di montagne innevate, ma i turisti stranieri che erano tornati ad affollare le strade non si vedono più. Dai manifesti e dai cartelloni, con il suo sguardo orgogliosamente umile è come se Soleimani chiedesse agli iraniani di riunirsi contro le minacce esterne. In questi momenti, gli Stati autoritari stringono i ranghi e chiudono le piccole finestre di libertà lasciate aperte. È ciò che sta accadendo in Iran? Alcuni segni sembrano confermarlo ma la complessità del Paese è tale da sfidare qualsiasi ansia di semplificazione.
Certo, le elezioni politiche il 21 di questo mese appaiono una conferma: il Consiglio dei Guardiani, che decide chi può presentarsi al voto, ha squalificato oltre 90 attuali parlamentari. La strage maggiore è avventa nelle liste riformiste: su 627 registrati sono passati soltanto in 44. Tiepidezza religiosa e malversazioni sono tra le motivazioni più comuni della bocciatura. Hanno fatto secco anche un personaggio indefinibile come Ali Motahari, 62 anni, veterano del parlamento, figlio dell'eroe della rivoluzione islamica l'ayatollah Morteza Motahari, una sorella moglie dell'influente politico Ali Larijani. Un Ron Paul iraniano, azzardando un paragone con la politica del nemico, recentemente avvicinatosi ai riformisti. «Le scelte del Consiglio dei Guardiani rischiano di compromettere il futuro della rivoluzione - ha detto - si sta ulteriormente restringendo la libertà di pensiero e la possibilità del popolo di decidere il proprio destino».
Nonostante le ombre che si addensano sul prossimo voto, e le scommesse sul peso dell'astensionismo, non è la politica in cima ai discorsi degli iraniani ma l'economia, quella spicciola della borsa della spesa. Non soltanto la benzina triplicata (per trovare fondi da destinare alle famiglie più povere, ha detto il governo) che fu la scintilla delle proteste di novembre, quando Internet sparì per una settimana e ci furono morti per le strade (anche se i numeri fatti sono difficilmente verificabili). Il cibo, i trasporti, gli svaghi, tutto è più o meno triplicato negli ultimi due, tre anni in una Paese impoverito che già pativa la frustrazione delle promesse non mantenute dell'accordo nucleare. Qualche esempio, tenendo conto che lo stipendio medio mensile è sui 370 euro e il salario minimo 110. Un chilo di arance costa tra i 42 e i 20 centesimi, prima era tra 07 - 10. Pomodori, oggi da 40 a 60, ieri da 14 a 25. Il riso è quasi 2 euro, prima 64 centesimi. Carne di vitello, sugli 8 euro, allora 3. Un litro di latte fresco 3,5 centesimi contro 1,5. Prezzi quasi triplicati, come si vede.
C'è un filmato che gira sottobanco sui social media iraniani in cui una ragazza suona il tamburello e l'altra canta una canzone in stile rap che dice più o meno: «Hassan, Hassan, il tuo governo aumenta la benzina. Hassan fai schizzare i prezzi. Hassan sei il signore delle chiavi ma le hai perdute». La strofa si riferisce a quando il presidente promise di avere le chiavi con cui aprire molte porte, di dare cioè al Paese un futuro migliore. Il video non è certo un documento sociologico ma esprime in qualche modo un sentimento diffuso. E le bugie sull'abbattimento del jet ucraino hanno minato il gradimento di Rohani tra la popolazione.
Nelle grandi città, però, in questi ultimi anni si è respirato, almeno in determinate aree, una maggiore libertà, compatibilmente con uno Stato che intende restare islamico. Solo fino a qualche anno fa, a Teheran, un espresso decente era un sogno, il mestiere di barista una barzelletta. Oggi si tengono corsi per servire al bancone e le caffetterie si moltiplicano. I tre grattacieli Asp del tempo dello Shah, nel centro-nord, nel vecchio quartiere ebraico di Josefabad abitato dalla media borghesia, sono stati ristrutturati e ospitano al piano terra locali molto cool e boutique per un pubblico soprattutto giovanile. Il caffè Babylon non sfigurerebbe a Milano, a Roma, a Torino, con la lampada di un faro marino in vetrina, le poltrone di design e le luci montate dentro casse di batterie. Spiega il professor Raffaele Mauriello, 45 anni, moglie iraniana, da 23 anni nel Paese, un avellinese che insegna, tra l'altro, Teologia islamica all'università statale, primo straniero a diventare ordinario dalla rivoluzione: «Ormai anche negli atenei le classi sono miste. Molte cose sono cambiate, i giovani vogliono soprattutto normalità. Rohani, molto più del primo presidente riformista Khatami, ha saputo creare socializzazione, è questo il suo merito. Una conquista che le minacce e la guerra economica ora rischiano di mettere a repentaglio. Le sanzioni stanno danneggiando più questi ragazzi che non le élite». Ai tavolini maschi e femmine stanno spalla a spalla e il velo islamico delle ragazze è come calamitato dalle spalle: arriva dove comincia l'occipite, scende sulla nuca: Ecco, là si adagia sulla schiena, liberando lo splendore dei capelli. Chi l'avrebbe detto, ai tempi di Ahmadinejad.
È una società difficilmente decifrabile, quella iraniana ma un cambio traumatico di regime indicato a intermittenza dagli americani come lo scopo delle sanzioni, nel breve periodo non sembra probabile. Il professor Mauriello lo esclude del tutto. «È uno scenario inesistente, qualsiasi cambiamento in Iran potrà avvenire soltanto attraverso un percorso di riforme. Il sistema politico, a differenza di quanto si pensa in Occidente, ha una straordinaria capacità di tenuta». Lo zoccolo duro della Repubblica islamica è di almeno un terzo della popolazione e in mezzo c'è una massa informe che vorrebbe più libertà ma tira a campare e poi ci sono i contestatori radicali che non sono comunque abbastanza per una svolta in un Paese dotato di un formidabile apparato repressivo.
Hossein Sheikhalislam ha studiato informatica a Berkeley con il fratello di Rafsanjani, il Talleyrand della rivoluzione. È un veterano della politica iraniana, già portavoce del parlamento, vice premier, ambasciatore in Siria. Conservatore ma non ultrà, è il vice cancelliere all'Università Azad, l'ateneo privato fondato da Rafsanjani. «Il martirio del generale Soleimani - dice - non cambia nulla. Anzi, il suo assassinio ha unito di più l'Iran nel perseguire il suo obiettivo: cacciare gli americani dal Medio Oriente». Abbas Abdi, 63 anni, direttore del quotidiano «Salam», uno dei giornalisti riformisti più ascoltati, pensa invece che un cambiamento sia inevitabile: «Il governo non può più andare avanti così, è in un vicolo cieco - spiega al telefono -. Credo che soltanto un mutamento nella politica interna potrà portare a una politica estera diversa. Cercare di rinviare il momento delle riforme aggraverà soltanto la situazione del Paese ma è proprio ciò che sta accadendo».
Le elezioni così predeterminate indeboliranno ulteriormente il governo di Rohani, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, il padre, insieme con il presidiente, dell'accordo nucleare, sembra già adesso un Dead Man Walking. Facile immaginare che la prima testa a cadere sarà proprio quella dell'«americano», come lo chiamano i suoi detrattori.
'Siamo gli eredi del generale, useremo i missili contro i nemici'
Sam Torabi
Sam Torabi, 48 anni, iraniano cresciuto a Vienna, studi alla London School of Economics, è direttore del Risalat Strategic Institute di Qom, il Vaticano sciita. Lo si può vedere talvolta esporre il suo punto di vista tradizionalista sulla tv iraniana al programma di Nader Talebzadeh, regista celebre in Iran per un film su Gesù visto in prospettiva islamica.
Professor Torabi, che cosa cambierà in Iran dopo l'assassinio del generale Soleimani?
«Non credo che cambierà molto. Non bisogna immaginarsi l'Iran come spesso si fa in Europa o in America come un Paese dilaniato dal conflitto tra conservatori e riformisti. A molti sembrerà una cosa inaudita, ma c'erano conservatori favorevoli all'accordo nucleare e riformisti ferocemente contrari, specialmente quelli con una mentalità più vicina alla sinistra storica. In ogni caso, adesso sono tutti d'accordo su una cosa».
Che cosa?
«Che non ci si può di fidare degli americani e neppure degli europei, ma per ragioni almeno in parte diverse».
Cioè?
«Gli americani è palese si sono impegnati in un accordo che hanno subito disatteso, è un Paese che non ha alcun senso dello Stato. D'altronde gli americani (insieme con i britannici) sono una ferita costante nella storia del l'Iran, fino da quando orchestrarono nel 1953 il colpo di stato contro il primo ministro iraniano Mossadegh che aveva nazionalizzato i pozzi di petrolio. Gli europei sono diversi tra di loro e deboli, non hanno la capacità di resistere ai diktat di Washington. Alla fine non sono in grado di mantenere la parola data. I Paesi europei possono salvarsi solo se si affrancano dalle Ue e dagli Usa. Un'Italia sovrana sarebbe, ad esempio, un partner strategico naturale per l'Iran. Storicamente, Roma non ha mai interferito negli affari interni iraniani».
Così l'Iran va per la sua strada?
«Per noi non c'è alcuna scelta, dobbiamo imparare dagli errori. La Guida Suprema quando approvò l'accordo del 2015 lo fece con molta riluttanza dicendo che era scettico sulla buona fede degli americani. È stato proprio così, ci hanno ingannati mentre noi abbiamo rispettato l'accordo alla lettera, come d'altra parte l'Agenzia internazionale atomica ha certificato».
Quindi che cosa diventa l'obiettivo strategico della Repubblica islamica?
«Continuare la missione del generale Solemaini, insieme con l'Asse della Resistenza, vale a dire espellere le forze armate americane da tutto il Medio Oriente. L'Iraq ha già fatto sapere con molta determinazione che le forze di Washington non sono più gradite nel Paese. È soltanto l'inizio. Credo che la conseguenza degli avvenimenti recenti sarà che l'Iran rinforzerà il suo deterrente strategico da un livello regionale a uno globale. In pratica ciò significa nuove armi strategiche con i missili intercontinentali capaci di colpire le capitali di qualsiasi paese voglia attaccare l'Iran».
Intende anche armi nucleari?
«No, soltanto missili intercontinentali convenzionali. La Guida Suprema Ali Khamenei ha chiarito con una fatwa che l'Iran non vuole dotarsi di armi nucleari».
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