Recensione di Elena Loewenthal dalla Stampa di venerdì 30 gennaio '04.
E’, al pari di qualche altra, una storia del popolo ebraico che comincia dal Giardino dell'Eden, fra Tigri e Eufrate. Qui arriva nel 1957 il giovane Martin Gilbert, che in seguito sarebbe diventato un celebre storico. Ha attraversato i Balcani e la Turchia. Vuole spingersi in India per incontrare zia Fori «affabile donna indiana, bella nella sua sari, profondamente preoccupata del benessere dell'India». Suo marito è un diplomatico di spicco, conosciuto nel 1930 in Inghilterra, dove era andata a studiare. Settantasette anni dopo quella specie di esilio, la zia Fori voleva imparare la storia del popolo cui apparteneva, e che aveva lasciato per il «calore, la polvere e le sfide dell'India».
Cento e quaranta epistole compongono Carissima zia Fori… La storia del popolo ebraico raccontata in 140 lettere (Carocci, pp. 442, e 23,80). Appena imbucata l'ultima, Martin Gilbert parte per l'India ad aspettare insieme a zia Fori, ormai novantatreenne, che essa giunga a destinazione. Nell'attesa, tocca a lei narrare la propria storia e quella della famiglia, con il distacco saggio di chi è tanto avanti negli anni. Sino ad allora, lungo le pagine del libro, la figura di lei che ascolta è come una filigrana silenziosa, ma in fondo anche la ragione di esistere di queste lettere. Perché questo è l'unico prezzo che la memoria riscuote sempre, ciò ch'essa pretende e senza il quale non ha ragione alcuna di esistere: un cuore capace di ascoltare. Più o meno così direbbe la Bibbia.
I materiali che compongono il libro sono infatti più che mai un tracciato di memoria, che avvince tenendo viva la curiosità e suscitando quello stupore particolare che viene dal conoscere. Perché in queste pagine c'è un ricco avvicendarsi di notizie dentro quella scansione originale del tempo e dello spazio che solo un epistolario può regalare. Meglio di ogni manuale articolato, una raccolta di lettere tiene fede al percorso frammentario, disperso nella cronologia così come nella geografia, del popolo ebraico. Epoche e luoghi si incontrano, combaciano o si distanziano, secondo un'economia che è peculiare al passato d'Israele: come quando un gruppo di contadini di un kibbutz nella valle di Iezreel parte da Bet Alfa per incontrare un illustre archeologo, il professor Sukenik, perché scavando le fondamenta per una stalla ha trovato un mosaico. Risale al VI secolo d.C., ed è strabiliante testimonianza della «continuità e della ricchezza della vita ebraica nella terra d'Israele nei diciotto secoli che separano la caduta di Masada e il “ritorno alla terra” del XIX secolo».
Martin Gilbert racconta alla zia Fori delle diaspore più remote, dal Sud America all'estremo Oriente, spiega i significati delle feste, traccia itinerari culturali, espone con chiarezza le dinamiche politiche che hanno regolato la vita ebraica di minoranza: «conservare l'equilibrio tra l'obbedienza e la soggezione, tra l'accettazione della dominazione straniera e il rifiuto della spietatezza e dell'umiliazione». Offre al lettore una quantità di notizie, piccole e grandi ma tutte a modo loro illuminanti. Insieme alla zia Fori che l'ascolta attenta, c'è in filigrana l'eterno pendolo fra lontananza e ritorno, fra terra d'esilio e terra di appartenenza, che accompagna il racconto dall'epoca biblica sino al presente. Alcune di queste lettere affrontano le grandi questioni della storia ebraica, altre sono dedicate a vicende particolari: «Questa lettera sarà breve. Riguarda un gruppo di ebrei a cui mi capita di pensare spesso, i medici e gli infermieri che sono stati uccisi nell'Olocausto».
C'è soprattutto un senso vivo della memoria, interrogata dall'esperienza e dalla nostalgia, dai silenzi e dal coinvolgimento di zia Fori. Solo così la memoria ritrova la propria voce - e lo fa mirabilmente in questo libro. Altrimenti diventa sterile celebrazione, epitaffio con cui saldare i conti del passato per non trovarselo più davanti agli occhi.