"Per Berlin gli ebrei hanno un unico liberatore, Israele"
C’erano tre tipi di ebrei prima dello Stato di Israele. Quelli che dicevano di
non avere alcuna gobba, capaci di tirar fuori documenti medici o di citare qualche positivista che la considerava un retaggio dell’isteria di massa; quelli che ne facevano un motivo di orgoglio, come quei gobbi d’oro che si possono comprare nella West 47th Street, fra la Fifth e la Sixth Avenue, a New York, in quel cancan e ronzio da arnia di botteghe, empori, venditori, agenti di Borsa, intermediari e kibitzer ebrei che affollano la strada. Infine, gli
ebrei timorosi che, non parlandone, pensavano che l’argomento sarebbe finito nel dimenticatoio delle superstizioni. Il trionfo del nuovo Stato ebraico, per Isaiah Berlin, convinto che gli ebrei di Israele abbiano “la schiena diritta”, “ha restituito agli ebrei non già la loro dignità e il loro status personali di esseri umani, ma qualcosa di immensamente più importante: il loro diritto di scegliere in quanto individui come vivere”. Lui la schiena ce l’ha sempre avuta diritta. Fuggì dalla Lettonia invasa dai bolscevichi ed è il primo ebreo a essere stato nominato fellow al Corpus Christi College di Oxford. E’ uscita per Adelphi la rista pa di una vecchia raccolta di suoi saggi, “Il potere delle idee” (352 pagine, 32 euro). Aveva un nonno rabbi chassidico, ma lui trovava il Talmud un libro “noioso, noioso, molto noioso”. L’ebraismo l’ha studiato passando dalla porta di dietro, chiedeva spiegazioni agli amici russi, Boris Pasternak e Anna Achmatova, che rispondevano per lo più infastiditi. Gli venne in mente, giunto in Inghilterra, di scrivere una biografia di Marx e un ritratto di Chaim Weizmann, di cui era intimo confidente. Memorabile fu l’incontro con Freud nel suo giardino di Londra: sentendosi rispondere dal giovane ricercatore che intendeva insegnare filosofia, Freud gli chiese, beffardo: “E così voi mi giudicate un ciarlatano?”. Non gli fece invece una buona impressione Ben Gurion. Michael Ignatieff, biografo di Berlin, riporta il giudizio su un “leader contadino, grossolano, inesorabile e furbo”. E’ stato un
sionista tutta la vita, oggi forse tiferebbe Shinui, lo era da hegeliano, amava dire, perché “la libertà consiste nell’essere a casa” e il 1948 “ha liberato tutti gli ebrei, qualunque sia il loro rapporto con esso”. Si può continuare a vivere a Crown Heights, a Golders Green o a Grunewald, il quartiere di Berlino abitato un tempo dalla ricca borghesia assimilata. Si può scegliere se portare
fieri o se cambiare cognomi come Plotz, Klutz o Billig, che un tempo si mettevano agli ebrei che non potevano permettersi di pagare per un Rosenblatt, Rothman, Lieber, Rosenzweig. Lo si può fare. Perché con Israele gli ebrei possono finalmente scegliere in piena libertà di vivere nelle comunità che li hanno ospitati, “moralmente liberi di lasciarle, e la loro scelta, se partire o restare, non gli è più imposta, ed è pertanto una scelta autentica”. E’ affascinato, Berlin, dalla visione che avevano i primi sionisti inglesi: un avamposto occidentale che si ispirasse a una “missione civilizzatrice affidata a persone a essa consacrate, che avrebbero portato i frutti più maturi di tutto ciò che v’era di più pacifico e umanitario nella cultura occidentale”, una
versione ebraica dell’idealistica concezione liberale del Fardello dell’Uomo Bianco. Non è un Perle dell’esecrata lobby, Berlin, e non è mai stato un falco. Quelle due vipere in gonnella di Hannah Arendt e Mary MacCarthy lo chiamavano colomba serpentina. E’ che, secondo lui, Israele ha un imprinting di tipo risorgimentale, una “combinazione antica di devota religiosità medievale con la sua immensa potenza centripeta e conservatrice, da una parte, e di ideali liberaldemocratici ottocenteschi dall’altra”, poggiato su principi come la libertà dalle imposizioni governative, le libertà civili, l’eguaglianza, i diritti umani. Del retaggio di Israele fanno parte gli eredi degli intellettuali russi con il loro liberalismo agrario dell’“andare al popolo”, gli artigiani poveri e i braccianti in lotta per la sussistenza. Israele mescola anche in modo bizzarro “un’aura di entusiasmo liberale e una sorta di moderata fede semisocialista ben poco marxista malgrado tutta la sua fraseologia marxisteggiante”. Compiaciuta solidità. Sono sferzanti i paragoni di Berlin: l’Irgun, con la sua “byroniana disumanità”, è affine ai colonnelli polacchi di Pilsudski; la banda Stern è l’erede dell’ala terrorista dei socialisti russi; il Mapai raccoglie la mistica rurale dei menscevichi, mentre i primi coloni ebrei credevano nel rousseauiano “potere guaritore del contatto con la terra”. Potrà sembrare cosa triste e malinconica, ma Israele la sua coesione la trova per Berlin dallo stato d’assedio permanente che gli Stati arabi gli hanno imposto dall’inizio, è questa “l’indispensabile base morale degli sforzi comuni del popolo d’Israele”. Il fatto che gli israeliani si sentano sotto la minaccia di essere sterminati “fa emergere negli esseri umani certe virtù, certe forme di altruismo, una concreta occasione di mostrare una generosità”. Al posto dei salaci sapori che vengono da Est, il turista a Tel Aviv si troverà di fronte “placidità, rozzezza, testarda normalità, compiaciuta solidità, sanità, piattezza che gli ebrei hanno senza dubbio ampiamente meritato”. Oltre a essere l’ultimo residuo di esportazione democratica degli ideali europei, Israele per Isaiah Berlin è anche la testimonianza vivente del trionfo della volontà degli uomini sulla presunta verità del materialismo
storico. Nonché uno dei più affascinanti spettacoli del mondo.