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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Marcel Reich-Ranicki - La mia vita
MARCEL REICH-RANICKI

"La mia vita"

Ed. Sellerio - € 22



Recensioni:



[Il Foglio, di Marina Valensise, 11 giugno 2003]

IL LIBRO DI UN EBREO CHE VOLLE FARSI TEDESCO

Avventure di Marcel Reich-Ranicki e della sua “patria portatile”



Si legge come un romanzo la vita di Marcel Reich-Ranicki, l’ebreo che ha trovato

nella letteratura tedesca la sua “patria portatile”, il principe della critica in Germania, l’uomo più amato e detestato dagli scrittori tedeschi, che tiene testa a Günther Grass, infastidito dai suoi giudizi, lancia fendenti contro Martin Walser, che su di lui ha scritto un romanzo. L’intellettuale che non ha avuto paura di rompere con Joachim Fest, per dissenso sulle tesi di Ernst Nolte, è anche la star dei media che da vent’anni, alla radio e in tv, riesce a convogliare un’attenzione di massa su libri e cultura. La sua vita si legge come un romanzo, e se non fosse per l’ombra lugubre del nazismo, del comunismo e della Guerra fredda che si staglia sullo sfondo, potrebbe essere un capolavoro dell’immaginazione. Invece è la storia vera di un uomo nato in Polonia, cresciuto in Germania sotto il nazismo, deportato a Varsavia, sopravvissuto al ghetto e allo sterminio, diventato comunista, espulso dal partito, ritornato in Germania e diventato in breve una potenza culturale. “Sono per metà polacco, per metà tedesco e per intero ebreo”, diceva Reich-Ranicki a Günther Grass nel 1958, mentendo. In realtà, all’inizio dell’autobiografia, scritta a 70 anni suonati, divisa in cinque parti, premiata in Germania da oltre mezzo milione di copie vendute e tradotta da Simona Bellini per Sellerio, confessa: “Non avevo e non ho una mia terra natale, una mia patria e non sono nemmeno un apolide”. La bugia si spiega. MRR è nato a Wloclaweck, cittadina sulla Vistola appartenuta alla Russia sino al 1918, da due ebrei che si sentono innanzitutto tedeschi, anzi prussiani, perché cresciuti in due province del regno di Prussia. Il padre veniva dalla Nuova Prussia orientale; figlio imbelle di un agiato commerciante, abbandona gli studi

e tenta senza successo gli affari. La madre, figlia di un rabbino squattrinato, era vissuta tra la Slesia e la Posnania, parlava tedesco meglio del polacco, recitava Schiller e sognava Berlino. L’occasione di realizzare il sogno viene nel 1929, con la crisi che travolge l’impresa di materiali edili, e spinge la famiglia a trasferirsi a Berlino dal nonno materno, vivendo con l’aiuto degli zii. Lo zio Jacob, avvocato e notaio vive in un appartamento sontuoso, ha un cavallo che si chiama “Aristokrat”, e va in vacanza all’isola di Sylt. Ricorda MRR lo smarrimento di bambino di nove anni che arriva in casa dello zio, sintesi sensibile dell’assimilazione e dei suoi costi. Ricorda la severità della scuola prussiana, dove i professori prendono a frustrate gli studenti e insegnano la lealtà. Ricorda la scoperta della barbarie tedesca, la gioia per la musica e la letteratura, lo sforzo di eccellere per sentirsi accettato. E’ un diverso, un outsider, nato in una città dal nome impronunciabile, figlio di un padre senza un lavoro fisso e così debole da non opporsi al figlio che non lo vuole seguire in sinagoga. “Un ebreo può vivere con o contro Dio, ma non senza Dio”, scrive MRR e aggiunge: “Io non ho mai vissuto né con né contro Dio”. Ma per dire l’abbandono di tutte quelle prescrizioni a dir suo assurde e rivoltanti cita il Faust di Goethe, la bibbia dell’umanesimo laico e dell’universalismo alla tedesca: “Leggi e diritti si ereditano come un’eterna malattia ”. La sera del suo Bar Mitzvah, cerimonia della maggiore età, arriva la notizia del putsch di Ernst Rohm. Siamo nel 1934. Gli ebrei di Berlino non sanno se aspettare o emigrare. Gli ex-combattenti si pensano al sicuro. Intanto, però, l’antisemitismo prende piede. Il liceo di Schoeneberg che MRR frequenta chiude per l’improvviso calo d’iscrizioni, molti studenti ebrei infatti sono partiti. MRR passa al liceo Fichte di Wilmersdorf fra l’indifferenza dei compagni che accettano la propaganda nazista senza scomporsi. Il peggio arriva nel 1938, con il divieto di iscriversi all’università, l’obbligo di portare la stella gialla, il marchio sui passaporti, le panchine dipinte di giallo e il divieto di entrare in ristoranti e alberghi. A fine ottobre 1938, MRR sarà uno dei 18 mila ebrei espulsi dal Reich. L’anno dopo, la Wehrmacht entra a Varsavia. Reich-Ranicki racconta le umiliazioni inflitte agli ebrei. Agli ortodossi facevano tagliare la barba. Gli assimilati li derubavano. Se uno negava di essere ebreo, gli calavano i pantaloni per vedere se era circonciso. “Qualunque tedesco che indossasse una divisa e avesse un’arma poteva fare di un ebreo ciò che voleva, costringerlo a cantare, a ballare, a farsela addosso, a cadere in ginocchio implorando di aver salva la vita. Poteva ordinare a un’ebrea di spogliarsi, di pulire il selciato con le mutande e poi urinare davanti a tutti. Ai tedeschi che si permettevano

simili scherzi nessuno guastava il divertimento, nessuno chiedeva loro ragione

di ciò che facevano. Così potemmo vedere di cosa sono capaci degli esseri umani,

quando viene concesso loro un potere illimitato su altri esseri umani”. All’inzio del 1940, le SS ordinano di trasferire gli ebrei in un’“area residenziale”. MRR, assunto dal Consiglio ebraico diventa capo dell’ufficio per la corrispondenza. E’ fra i primi a sapere della recinzione del ghetto, dell’epidemia di tifo che miete centinaia vittime, ma lascia indifferenti i tedeschi, del servizio d’ordine, degli episodi da passare sotto silenzio, come quella madre che si mangia il fegato del figlio cadavere. Ordinaria amministrazione e straordinaria crudeltà. Chi ha la forza di resistere, fra i

450 mila ebrei del ghetto, trova rifugio nell’arte, come MRR e la fidanzata Tosia, che leggono i versi di Tuwim e Mickievicz, e assistono ai concerti di Vivaldi e Boccherini, improvvisati da musicisti disoccupati fra cadaveri e mendicanti vestiti di stracci. Nella primavera del 1942 i concerti vengono

proibiti. Al ghetto arrivano treni carichi di deportati. Seguono fucilazioni, arresti, prese d’ostaggio, finché il 22 luglio non inizia il trasferimento a Est. MRR si trova a fare tradurre in polacco la condanna a morte degli ebrei del ghetto decretata dalle SS. Ma quel lavoro lo salva dal lager dove perderà

invece padre, madre e fratello. Rimasto a Varsavia, partecipa alle azioni della

Zob, l’organizzazione combattente ebraica, che prepara la rivolta del ghetto. Sfugge in extremis a una colonna, scappa, trova rifugio presso un tipografo che ha scommesso contro Hitler di salvargli la vita, e resiste soffrendo la fame, confezionando sigarette, raccontando ai suoi ospiti trame di romanzo per oltre un anno, finché non viene liberato da un soldato russo, ebreo. Non meno romanzesca è l’altra parte della sua vita, con l’ingresso nell’esercito polacco

come addetto alla censura, l’adesione al partito comunista, il passaggio nei servizi segreti con l’incarico di console a Londra, e poi il ritorno precipitoso a Varsavia, l’arresto, la condanna per deviazionismo ideologico,

l’avvio di una carriera di critico, autodidatta, e poi la delusione per l’antisemitismo rinascente, paradossale effetto della liberalizzazione di Gomulka. Non tutto è detto, non tutto è spiegato in questo libro magnifico. Ma l’essenziale c’è per capire il destino di un ebreo che ha sfidato le tragedie

del XX secolo per trovare la sua vera vita nella letteratura tedesca, e fra i tedeschi. E a indicarlo è lo stesso MRR quando ricorda lo slogan di Stalin del 1942 che nel 1955 inserì per compiacere il partito in una storia della letteratura in stile marxista-leninista: “Non si deve identificare il popolo tedesco con i nazisti, gli Hitler infatti vanno e vengono, il popolo tedesco invece resta”.





[Elena Loewenthal- La Stampa, 14 giugno 2003]

REICH-RANICKI: DAL GHETTO DI VARSAVIA (DOVE LO SALVA IL SUO PERFETTO TEDESCO) A GRANDE GERMANISTA



Di un breve scorcio di vita si diceva fra queste righe la scorsa settimana: qualche giorno di un poeta, Paul Celan, che infine affidò tutto se stesso alla Senna e scomparve.

Un'altra vicenda si dipana invece lungo le 480 pagine de La mia vita di Marcel Reich-Ranicki (Sellerio editore, nella traduzione dal tedesco di Simona Bellin, euro 22,00). Chi recensisce un libro non dovrebbe forse sbilanciarsi - raccontare piuttosto, spiegare, e fornire al proprio lettore gli elementi per giudicare da sé, consumate le pagine sotto gli occhi. E invece, di queste pagine vien per forza da dire che sono belle, ma in un modo speciale, ed è di quel modo d'essere belle che si può spendere qualche parola senza ch'essa risulti inutile, al di là dell'invito a leggerlo.

L'autore è oggigiorno un acclamato - e temuto - critico letterario, un germanista capace di bucare lo schermo televisivo e di dettare canoni di scrittura. Quando scrive lui, lo fa con una schiettezza ruvida, senza cedimenti sentimentali. La sua autobiografia è un libro retrospettivo, ad esempio, ma che nulla ha a che vedere con la memoria: è tutto «dato», notizia sul passato. E quasi scompare dietro la penna, chi quel passato l'ha vissuto. Reich-Ranicki è nato a Wlodawek, una cittadina della Polonia, nel 1920, da una famiglia di ebrei tedeschi sull'incerta via dell'integrazione. «Se Günter Grass o qualcun altro avesse chiesto a mio padre che cosa fosse, mio padre si sarebbe meravigliato: era un ebreo e basta». Un po' fannullone, a dire il vero, ed economicamente inaffidabile. Le redini di casa le tiene la madre di Marcel, insieme a fratelli e sorelle più grandi di lui.

Ben presto la famiglia torna in Germania, a Berlino, dove Marcel frequenta le scuole superiori. Il racconto di quel periodo, dell'atmosfera del Terzo Reich così come filtrava nei discorsi fra i banchi in classe, è di una nettezza esemplare. E anche dopo, quando Marcel viene cacciato dalla Germania da un'ora all'altra e rispedito - benché tedesco - nella Polonia in cui quasi per caso è nato, quando insieme alle famiglia viene rinchiuso nel ghetto di Varsavia e tutto laggiù comincia e poi finisce brutalmente, il suo racconto mai perde la limpidezza dei fatti presentati nel modo più obiettivo possibile. Senza lacrime, senza paura, senza terribili malinconie.

Nel ghetto Marcel si salva in virtù della propria competenza linguistica: il suo perfetto, limato tedesco lo renderà indispensabile alle autorità naziste. A Varsavia conosce e sposa Teofila, che da allora gli resterà sempre al fianco: il loro non è un amore romantico, ma resta tenace sulla pagina, da quel precipitoso matrimonio celebrato per salvare la vita di lei.

E dopo la guerra ci sarà la Polonia comunista, e il ritorno in Germania, e l'approdo a quella vocazione già timidamente enunciata ai tempi del ginnasio, ma allora così improbabile da risultare financo ridicola: un ebreo nato in Polonia con l'ambizione di diventare germanista. Eppure ci riuscirà, un po' per ostinazione di sopravvivenza, un po' per amore di questa lingua e di questa sua letteratura - un amore che dopo la guerra e quel che Marcel ha visto sembra paradossale. Ma questa forse è proprio la sua forza.

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