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Informazione Corretta Rassegna Stampa
06.02.2020 'La sinistra italiana e gli ebrei', di Alessandra Tarquini: il libro che mancava
Recensione di Diego Gabutti

Testata: Informazione Corretta
Data: 06 febbraio 2020
Pagina: 1
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «'La sinistra italiana e gli ebrei', di Alessandra Tarquini: il libro che mancava»
'La sinistra italiana e gli ebrei', di Alessandra Tarquini: il libro che mancava
Recensione di Diego Gabutti


A destra: la copertina del libro di Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, il Mulino 2019, pp. 309, 22,00 euro.


Avrebbe dovuto essere, secondo la promessa, il secolo del proletariato e della giustizia sociale. Invece è stato il secolo degli ebrei e delle apocalissi totalitarie. A riconoscere, decifrare e governare ogni processo storico, sempre secondo la promessa, avrebbe dovuto essere la sinistra, le sue nomenklature, i suoi teorici e i suoi sindacati, la sua egemonia culturale, le sue case del popolo. Ma la sinistra non ha riconosciuto, decifrato e (tanto meno) governato alcunché: lasciamo stare le società direttamente amministrate dai suoi apparatniki, dov’è stata (e rimane) al potere grazie a un uso sistematico del terrore, e guardiamo alle società libere, per esempio all’Italia, dove la sinistra è andata incontro alla più totale disfatta ideologica e politica. Non ha perduto soltanto il consenso del proletariato, e abbracciato la causa del pubblico impiego e dei ceti parassitari, ma ha sacrificato ogni ratio politica, la sbandierata virtù sulla quale aveva fondato tutte le sue pretese egemoniche, sull’altare dei calcoli più spudorati e dei pregiudizi più miserabili. È stata per decenni al servizio della politica estera sovietica, furiosamente antidemocratica, e per decenni ha sorvolato sulla Shoah, questione centrale del nostro tempo, rubricando lager e camere a gas alla voce «questione ebraica» ereditata da un frettoloso pamphlet di Karl Marx («l’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dal giudaismo») e dagli utopisti suoi nemici di penna (tutti antisemiti in senso stretto, da Fourier a Blanqui, da Proudhon a Bakunin). E non finisce qui, perché con rara impudenza la sinistra, dopo aver minimizzato Auschwitz, ha rubricato il Gulag sovietico, con le sue decine di milioni di morti, alla voce «culto della personalità». Ma restiamo al rapporto tra La sinistra italiana e gli ebrei, come Alessandra Tarquini, storica dei movimenti politici e delle culture totalitarie, ha intitolato il suo ultimo libro, un libro che parla da solo, inanellando storie e racconti, tra sconosciuti e persino comici, ma per lo più agghiaccianti: cent’anni di storia della sinistra e dell’ebraismo italiani, dal 1892 al 1992, da Filippo Turati a Bettino Craxi, dal «cosmopolitismo» secondo il canone stalinista alla nascita d’Israele e al «palestinismo», dal crollo del Muro di Berlino a Tangentopoli e Desert Storm.

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Alessandra Tarquini

All’origine, quando si consuma la rottura politica e organizzativa tra socialisti e anarchici, i bakuninisti da una parte e i marxisti dall’altra, il socialismo italiano è ancora sotto l’effetto del «Caso Dreyfuss» e appare schierato con la nascente opinione pubblica europea che si è battuta contro l’antisemitismo dell’Armée (e del popolo francese). Filippo Turati e il socialismo moderato continueranno a combattere l’antisemitismo, che tuttavia s’insinuerà nelle fila del movimento proletario d’emancipazione attraverso i sindacalisti rivoluzionari seguaci di Georges Sorel, maestro di Benito Mussolini e anche un po’ di Gramsci, nonché primo dei filosofi, diventati presto legione, che si richiameranno contemporaneamente a Marx e Nietzsche (da Sartre, Vattimo e Cacciari in poi, anche Heidegger s’unirà alla compagnia di giro). Sorel – scrive Alessandra Tarquini – associava «la diffusione della cultura ebraica alla decadenza della società occidentale. Non si trattava d’una riflessione analoga a quella degli utopisti francesi che vedevano negli ebrei il simbolo del capitalismo. Per Sorel la diffusione dei motivi ebraici era uno dei sintomi intellettuali (“al pari del modernismo, del riformismo, dell’umanitarismo e del sistema di idee che li sintetizzava, ossia l’aborrita democrazia”) della progressiva degenerazione della società borghese». In Italia, per il momento, nessuno ancora contesta apertamente al sionismo, che muove allora i primi passi, il diritto di sedere al tavolo grande del movimento socialista (ma nell’Europa dell’est glielo contesta il BUND, l’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituana, Polonia e Russia, parte del partito socialdemocratico russo, che vede nei sionisti dei «nemici di classe» che «consegnano i lavoratori nelle mani della borghesia ebraica»). Ateo e socialista, il medico e antropologo Cesare Lombroso afferma d’essere un «sionista perché sono ebreo e perché come ebreo credo alla rigenerazione della nazione ebraica. E ciò non può avvenire che sul suolo da cui si è propagata la luce sul mondo intero». Alla maggioranza dei socialdemocratici europei, che stanno riscoprendo il peso e l’importanza delle «questioni nazionali», appare perfettamente chiaro che il sionismo è «un movimento di classe: l’unica speranza per gli ebrei più poveri del mondo di riscattare secoli d’oppressione».

Quanto alla socialdemocrazia russa, ribattezzata «partito comunista» dopo il colpo di stato bolscevico, di sionismo non ne vuol sapere, come non ne voleva sapere la sua ala bundista (cacciata a sua volta dal paradiso sovietico). Stalin detta la linea nel suo saggio sulla questione nazionale: «Che cos’è questa nazione ebraica, composta d’ebrei georgiani, daghestani, russi, americani e altri, una nazione i cui membri non si comprendono l’un l’altro perché parlano lingue diverse, vivono in diverse parti del globo, non si vedono mai tra loro, non agiscono mai congiuntamente, né in tempo di pace, né in tempo di guerra?» In Italia, quando si consumerà un’altra scissione, quella tra socialisti e comunisti, che segue a trent’anni di distanza quella tra anarchici e socialisti, l’ala comunista (il Pcd’I) abbraccerà l’antisionismo, linea ufficiale dei partiti sponsorizzati da Mosca, e s’adatterà a chiamare «internazionalismo» lo sciovinismo grande-russo. Franchising del partito russo, il Pcd’I dovrà fare buon viso a eventi che anticipano Hitler, come quando «nel settembre 1919 venne chiuso l’Ufficio centrale per il sionismo e migliaia di sionisti, negli anni seguenti, furono arrestati come controrivoluzionari. Per ottenere la completa sovietizzazione degli ebrei, i comunisti perseguirono qualsiasi forma di sopravvivenza della loro cultura e della loro tradizione. All’inizio degli anni Trenta, chiusero la Yevsektsia [la sezione ebraica del partito] arrestando i suoi leader e accusandoli d’essere trockisti. Nel 1932 fondarono Birobidzhan, una regione autonoma nel cuore della Siberia, una sorta di Palestina sovietica, a ottomila chilometri da Mosca, dove furono inviati cinquantamila ebrei [e] dove fu messa al bando la lingua ebraica, scelta dai sionisti come linguaggio unificante della nuova nazione, ma definita dai comunisti “lingua della sinagoga” e sostituita per decreto con lo yiddish, la lingua del proletariato ebraico, proclamata idioma ufficiale del Birobidzhan.

La costruzione del socialismo in un solo paese non aveva più bisogno dei rivoluzionari ebrei, cosmopoliti, sradicati e internazionalisti. Presto – dalla seconda metà degli anni trenta – s’abbatté su di loro la scure delle purghe staliniane e dell’antisemitismo». In Italia, i comunisti applaudivano: «Discutendo con Tatiana Schucht, che da poco aveva visto il film Due mondi di Ewald André Dupont, e gli chiedeva cosa pensasse delle differenze fra gentili ed ebrei, Antonio Gramsci rispose nell’autunno del 1931 che la questione era stata risolta da Marx; che i cristiani erano diventati ebrei “assimilando l’essenza dell’ebraismo”, cioè “la speculazione”, e che la soluzione si sarebbe avuta quando “tutta l’Europa” si fosse “liberata dall’ebraismo”». A Torino, nel marzo del 1934, la polizia arresta quindici membri di Giustizia e Libertà, il movimento liberalsocialista di Carlo Rosselli, Emilio Lussu eccetera. Sono tutti ebrei, e qualcuno lo fa notare. Ciò desta lo sdegno surrealista dell’Avanti, in quel momento organo dei massimalisti filosovietici: «È triste che l’opinione pubblica si commuova quando le vittime sono persone d’alta condizione economica e vittime d’odi religiosi. Le vittime proletarie non hanno – e neppure sempre, ahimè! – che la solidarietà della loro classe». Non basta. Pochi anni dopo, quando il regime proclama le leggi razziali, la sinistra in esilio vaneggia «che il fascismo aveva adottato le leggi razziali per “proclamarsi nemico del capitale” e amico del popolo, poiché in Italia gli ebrei appartenevano “tutti alla borghesia, spesso alla grossa borghesia”. Erano, quindi, pericolosi due volte: come “fascisti” e come “capitalisti”. Anzi, proprio in quanto “capitalisti”, gli “ebrei” erano stati “fascisti entusiasti fin dall’inizio”». C’è la guerra, la guerra finisce, e l’Unità, il giornale del partito comunista, pubblica un articolo su Auschwitz, «basato su un rapporto apparso sulla Pravda», in cui «non compare una sola parola sul fatto che le vittime erano ebrei». Un anno più tardi, nel 1946, «Natalia Ginzburg pubblicò sul quotidiano del PCI un articolo intitolato Il figlio dell’uomo in cui, malgrado la persecuzione subita in quanto ebrea e antifascista, e malgrado la vicenda di suo marito Leone, torturato a morte in carcere a Roma nel 1944, eliminò qualunque riferimento all’antisemitismo [né] menzionò i suoi correligionari».

All’inizio, nell’immediato dopoguerra, quando Israele sta uscendo dall’utopia sionista per trasformarsi in una realtà politica, il partito comunista sovietico, che sta al partito italiano come Mangiafuoco ai suoi burattini, è favorevole alla proclamazione dello Stato ebraico. Ciò nell’illusione che Israele, in virtù della sua nomenklatura socialista e dei kibbutz nei quali si pratica quella che appare come un’economia collettivista, possa diventare una democrazia popolare senza l’incoraggiamento dell’Armata rossa e del terrore di massa, come nell’Europa dell’est. Ma l’idillio dura poco: David Ben, socialdemocratico, ringrazia l’URSS per l’«appoggio in sede di Nazioni unite», ma dichiara che Israele «non tollererà una dominazione sovietica». Stalin non la prende bene, e anche i comunisti italiani, che per un momento hanno celebrato sui loro giornali il «socialismo sionista», scoprono le virtù, fino a quel momento ignorate, del nazionalismo arabo. Sono gli anni del neorealismo, di Roma città aperta, di Ladri di biciclette e di Sciuscià, ma per quanto attento, come si dice, alle questioni sociali, il cinema italiano non spreca un fotogramma per raccontare l’antisemitismo fascista, i rastrellamenti e le deportazioni, le leggi razziali. Già regista di regime, autore di Cavalleria e di Luciano Serra pilota, Goffredo Alessandrini vince nel 1948 il Nastro d’Argento, «premio nazionale dei giornalisti cinematografici», con L’ebreo errante, dove Vittorio Gassman è l’immortale Asvero che alla fine del film, finito in un campo nazista, riscatta le proprie colpe (millenni prima, non era stato gentile con Gesù) sacrificandosi per gli altri deportati. Secondo l’Unità, l’idea del film non è «malvagia: il riscatto della biblica maledizione che incombe sul popolo ebreo (tramandata dalla leggenda dell’ebreo errante) per mezzo del sacrificio del sangue da esso sostenuto nel corso della recente guerra». Ce n’è anche per i bambini. Sul Pioniere, il giornaletto del movimento dei Pionieri, cioè dei piccoli comunisti tirati su a slogan antimperialisti e fazzoletti rossi da collo, appare un fumetto «intitolato Il milionario che rubò il sole». Protagonista, «l’operaio Primo» in fuga dai creditori, «disegnati con le fattezze degli ebrei religiosi più ortodossi: cappotto nero, barba fitta, grande naso, cappello e riccioli sulle orecchie». Nel 1954 esce la traduzione del Diario di Anna Frank e Attilio Bertolucci lo recensisce e «sintetizza» senza accennare neppure per sbaglio alla Shoah e all’antisemitismo. Se questo è un uomo viene «rifiutato dai consulenti della casa editrice Einaudi, Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, convinti che il tema non interessi i loro lettori». È il 1946; l’Einaudi ci ripenserà dieci anni dopo. Quanto a Rossana Rossanda, che nel 1964 recensisce Il grande viaggio del comunista spagnolo Jorge Semprún, deportato a Buchenwald e futuro ministro della cultura del governo González, riuscì a parlare d’un campo di sterminio nazista senza nominare «nemmeno una volta la parola ebreo». Fascistissimo, poi comunista, il Premio Nobel Salvatore Quasimodo scrive a metà degli anni cinquanta la poesia Auschwitz, ma qualche anno dopo, «sul quotidiano Le ore, parla “della potenza incontestabile finanziaria degli ebrei” e della loro incapacità di provare senso del dovere e lealtà patriottiche».

Sul Calendario del popolo, «storica rivista comunista fondata da Giulio Trevisani subito dopo la guerra», si legge che «va senz’altro respinto il tentativo d’identificare Israele con gli ebrei sterminati dai nazisti. Appare particolarmente repugnante il tentativo di strumentalizzare il patrimonio di dolore e morte degli ebrei d’Europa, patrimonio di tutti coloro (e i combattenti della classe operaia e dei partiti comunisti in prima fila) che hanno sofferto il terrore hitleriano e combattuto il nazifascismo, per avallare i fini di potenza e espansione dello Stato d’Israele». Naturalmente Israele esiste, «è una realtà», ammette controvoglia il Calendario del popolo, «ma riconoscere che una cosa esiste non significa riconoscerne la legittimità». Conclusione: «L’unica alternativa, a lunga scadenza, è il suo annientamento». Negli anni di piombo, quando la sinistra giovanile e «goscista» occupa le piazze ed esalta la lotta armata in tutte le sue forme, la sinistra non esita a paragonare «il comportamento della classe dirigente israeliana a quello dei nazisti». Nel gennaio del 1969 Servire il popolo, giornale maoista, «scrisse che gli israeliani impiegavano la logica del nazismo ricorrendo a mezzi di sterminio», mentre Lotta Continua, qualche anno dopo, «parlò di “soluzione finale”. L’ombra del nazismo si stende su quella specie di soluzione finale alla quale i dirigenti israeliani ormai sembrano puntare: l’eliminazione del problema palestinese per mezzo dell’eliminazione fisica dei palestinesi stessi». Filoisraeliano negli anni del centrosinistra, il partito socialista diventa antisraeliano, e fortemente palestinista, con la segreteria Craxi, che da un lato abbraccia la tradizionale politica estera italiana, schierata con i paesi arabi (e petroliferi) fin dai tempi di Mussolini «Spada dell’Islam», e che dall’altro proietta sull’OLP e su Arafat le fantasie mazziniane e garibaldine del neosegretario. Craxi, diventato il massimo protettore dell’OLP in Europa e in seno all’Internazionale socialista, definisce «quella di Tel Aviv una “direzione politica reazionaria e fanatica”, espressione “di provocazione e prevaricazione”».

C’è una svolta con «la Guerra del Golfo scatenata dall’invasione del Kuwait», quando «Craxi non esita a scrivere all’ambasciatore israeliano una lettera in cui esprime la vicinanza dei socialisti». S’apre un dibattito anche «nel PCI» e un esponente del partito, Piero Fassino, dopo il terzo attacco missilistico di Saddam sulle città israeliane» dichiara per la prima volta che «la soluzione del conflitto mediorientale, e la possibilità di costruire una nazione palestinese, passava attraverso la legittima aspirazione dello Stato ebraico a vivere in sicurezza». Da allora alti e bassi, soprattutto bassi. Uscito di scena il partito socialista, soggetto a frequenti mutazioni (e ormai semi-estinto) anche il partito comunista, l’antisionismo e il palestinismo (che negli ultimi decenni si è spesso trasformato in filojihadismo) continuano a essere parte identitaria della sinistra italiana. Nei giornali e nei talk show impazza la retorica progressista da salotto chic e si continua a confondere l’antisemitismo col «sovranismo» e col «leghismo» (ma non col populismo pentastellare, alleato con la sinistra ex e post, benché le mezze pippe fedeli a Beppe Grillo e alla Piattaforma Rousseau non facciano mistero del loro disprezzo per Israele e per gli ebrei, per di più sfacciato e ridicolo, da analfabeti). A sinistra, conclude Alessandra Tarquini, in questi ultimi centotrent’anni, da Turati al Conte 2, c’è stata soprattutto indifferenza e incomprensione della «questione ebraica», bandiera sbrindellata del marxismo volgare, ed «è proprio questo il problema. Sia in termini teorici, sia in termini pratici, non vedere l’identità degli ebrei, non riconoscere la loro specificità, ha determinato una serie di conseguenze. È sufficiente affermare che in Marx e nel marxismo non c’è antisemitismo, ma indifferenza rispetto alla questione ebraica? L’indifferenza non è una scelta, tanto più quando riguarda milioni di morti e un fenomeno di massa come la Shoah?»

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Diego Gabutti

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