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La Stampa Rassegna Stampa
01.02.2020 Che cosa significa il piano di pace di Donald Trump
Maurizio Molinari risponde a un lettore

Testata: La Stampa
Data: 01 febbraio 2020
Pagina: 22
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Il piano di Trump sul Medio Oriente chiede ai leader palestinesi la scelta della realpolitik con Israele»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/02/2020, a pag.22, con il titolo "Il piano di Trump sul Medio Oriente chiede ai leader palestinesi la scelta della realpolitik con Israele", la risposta a un lettore del direttore Maurizio Molinari.

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Maurizio Molinari

Caro Re, dagli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993 ogni presidente degli Stati Uniti ha avuto un differente approccio al negoziato il Medio Oriente. Bill Clinton tentò di trasformarli in pace definitiva puntando sulla formula «pace in cambio di territori» ma si scontrò a Camp David nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat di riconoscere al premier israeliano Ehud Barak, anche solo sul piano storico, il legame fra gli ebrei e il Monte del Tempio a Gerusalemme. George W. Bush, con la Conferenza di Annapolis del 2007, rinnovò l'approccio ma questa volta a rifiutare lo scambio offerto dall'israeliano Ehud Olmert – che avrebbe consegnato ai palestinesi Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est con condizioni migliori di quelle di Barak - fu Abu Mazen, successore di Arafat, contrario a porre la propria firma sulla completa fine del conflitto «contro il nemico sionista». Barack Obama era invece convinto che per far accettare la pace definitiva ai palestinesi l'America dovesse prima indebolire la posizione negoziale di Israele – su Gerusalemme, confini e insediamenti – e così fece, con una raffica di decisioni diplomatiche, ma anche in questo caso l'esito fu negativo per l'ostilità di Abu Mazen a rifiutare nel 2013 la richiesta del Segretario di Stato John Kerry di rinunciare al «diritto al ritorno» dentro i confini di Israele di 5,1 milioni di profughi palestinesi.


Abu Mazen

Sono tali precedenti a spiegare perché Trump ha optato per un approccio radicalmente diverso dai predecessori, ovvero ha deciso di porre Abu Mazen di fronte alla necessità di rinunciare ai tabù ideologici del nazionalismo arabo-palestinese, riconoscendo dei dati di fatto: il legame fra popolo ebraico e Gerusalemme esiste da 3000 anni; i luoghi santi di Gerusalemme non sono mai stati così aperti e accessibili a tutti come dall'indomani del 1967 quando gli israeliani ne presero il controllo; i territori di Cisgiordania, Gaza e Golan furono presi da Israele al termine di un conflitto difensivo; la risoluzione 242 dell'Onu non obbliga Israele a tornare ai confini pre-1967; i confini fra Israele e nuovo Stato arabo-palestinese non possono mettere in pericolo la sicurezza dello Stato ebraico. 
Trump è convinto che se la pace ancora non è stata firmata è per la mancanza di realismo da parte dei leader palestinesi – Arafat prima ed Abu Mazen dopo – nel prendere atto della situazione sul terreno.

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Un rifiuto che si origina nell'idea che «ogni terra appartenuta all'Islam in ultima istanza tornerà sotto il controllo dei musulmani» come affermò perfino Anwar Sadat dopo aver firmato la storica pace Egitto-Israele del 1979. In ultima istanza, il maggior intento del piano di Trump è dunque di liberare il campo da ogni possibile dubbio sul fatto che Israele non sparirà dal Medio Oriente perché ciò che più ha spinto i leader palestinesi a rifiutare gli accordi di pace di Camp David ed Annapolis è stato il timore di assumersi la responsabilità di una pace definitiva, conclusiva, senza appello. Questo spiega perché la scelta di Trump nel sostenere Israele è così netta. E fa comprendere perché i maggiori Paesi arabi sunniti – Arabia Saudita, Emirati ed Egitto – hanno reagito al piano di Trump con il linguaggio della realpolitik chiedendo ad Abu Mazen di «iniziare a negoziare» ovvero di accettare anzitutto la premessa del piano della Casa Bianca: è ora di ammettere che Israele è parte integrante del Medio Oriente.

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