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Il piano di Trump divide il mondo arabo
Analisi di Antonio Donno
Donald Trump La proposta di pace di Trump, condivisa da Netanyahu, è l’ultima occasione per i palestinesi di risolvere il contenzioso con Israele e di veder nascere un proprio Stato. È l’ultima occasione in virtù del fatto che il Medio Oriente non è più quello delle precedenti proposte, che si sono susseguite dalla fine del secondo conflitto ad oggi (con particolare riguardo a quella del 2000, rifiutata da Arafat), ma presenta uno scenario politicamente sfavorevole, per buona parte, ai movimenti palestinesi (Fatah, Hamas, Jihad islamica), che si sono riuniti intorno ad Abu Mazen per pronunciare l’ennesimo “no” ad un piano di pace con Israele. È un “no” che porterà i palestinesi all’auto-distruzione, a meno che non si verifichi una rivolta interna che spazzi via i propri dirigenti, rei di aver perpetuato nei decenni una condizione di povertà e di frustrazione nella popolazione dei territori di cui sono i dittatori. Buona parte del mondo arabo è stufo della persistenza di un conflitto che disturba le relazioni con gli Stati Uniti e con Israele. La grande novità di oggi è proprio questa: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e probabilmente altri paesi arabi non intendono più opporsi a Israele, secondo uno schema retorico che è andato avanti per decenni, perché ciò guasterebbe le relazioni con Washington e danneggerebbe i rapporti economici con gli Stati Uniti. Per quale motivo gli Stati della penisola arabica dovrebbero rinunciare agli affari con gli americani al solo scopo di sostenere una causa, quella palestinese, che si va sempre più rivelando impraticabile nei termini pretesi da Abu Mazen e soci, e che si nutre ormai di una stanca ripetizione di slogan superati? Perché mai l’Egitto e la Giordania, due paesi in precarie condizioni economiche, dovrebbero rifiutare il piano di Trump? Per questi motivi, il mondo arabo non sembra più essere disposto ad accettare passivamente quella sorta di diktat imposto dal movimento palestinese ai “fratelli” arabi, costretti a condividere una posizione politica contraria ai loro stessi interessi. Peraltro, il piano di Trump prevede un negoziato di quattro anni, durante i quali, se i palestinesi si decidessero di impegnarsi seriamente nelle trattative, si potrebbero raggiungere aggiustamenti significativi. Ma la risposta negativa di primo acchito da parte palestinese ha un solo significato molto preciso: non si vuole la pace con Israele, perché la scomparsa dello Stato ebraico è divenuta un’ossessione, ma, come tutte le ossessioni, finirà per annichilire ogni forma di raziocinio. D’altro canto, insistere testardamente nel negare ogni forma di compromesso spingerà la dirigenza palestinese verso una posizione sempre più marginale nel contesto delle problematiche mediorientali e a limitare il necessario sostegno politico per la propria causa esclusivamente al totalitarismo teocratico di Teheran. Certamente non un bel risultato per le aspirazioni dei dirigenti palestinesi di fronte alla valutazione degli attori internazionali. In conseguenza di questo scenario, si può dire che il piano di Trump e Netanyahu giunge nel momento più opportuno, prima delle elezioni israeliane e a conclusione di una politica che i due capi di governo hanno messo in atto da qualche anno ad oggi. In primo luogo, il costante collegamento di interessi tra Washington e Riad, e con altre capitali della Penisola Arabica, in funzione anti-iraniana, ha comportato un riavvicinamento del mondo arabo sunnita a Israele, cui Trump ha dedicato un’attenzione politica che non si riscontrava da tempo da parte americana. L’alleanza tra Washington e Gerusalemme ha indotto i paesi arabi a escludere progressivamente dalla propria visione politica una questione che da troppo tempo danneggiava i rapporti con gli Stati Uniti, oggi più che mai in presenza della minaccia sciita nel Medio Oriente. Da parte sua, Netanyahu ha tessuto una fitta tela di rapporti internazionali che gli permettono di presentare sulla scena globale una presenza israeliana nel contesto regionale non più da attore isolato, ma in sintonia con gli interessi di vari paesi arabi grazie alla sinergia messa in atto da Trump. È ancora presto per tirare le somme del piano trumpiano, ma è indubbio che si tratti di una provocazione che impone agli attori regionali la presa d’atto di una novità che non può essere elusa.
Antonio Donno |
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