Quattro personaggi. Un medico, un maestro elementare, un maggiordomo, un pittore. Quattro ebrei emigrati che in tempi e paesi diversi vivono l'esperienza del distacco e della non appartenenza e recidono il filo che li separa dalla loro finale destinazione. In quattro racconti, come quattro romanzi in nuce, l'autore compone una storia universale. Tra le sue pagine gli emigrati sono quanti hanno provato l'esperienza dell'abbandono, dell'allontanamento, della solitudine, quanti sotto lo stesso cielo si sentono persi, dispersi, alla deriva: l'umanità tutta.
recensione di Morello, R. L'Indice del 2000, n. 05
"Distruggete anche l'ultima cosa. Il ricordo no" - recita l'esergo del racconto che apre questo libro malinconico e struggente di uno dei migliori scrittori tedeschi di oggi.
Nato a Wertach im Allgäu nel 1944, Sebald vive in Inghilterra dove insegna letteratura tedesca presso la University of East Anglia (suo è, tra l'altro, Gli anelli di Saturno, Bompiani, 1998).
Attraverso un tessuto di memorie, corredate da immagini, fotografie di luoghi e oggetti, spesso ben più durevoli delle persone alle quali sono appartenuti, Sebald racconta quattro storie esemplari di emigrazio-ne, scandagliando le ragioni profonde di un viaggio che conduce fatalmente lontano dall'origine e da sé. Ma, verrebbe da dire con un celebre titolo di Claudio Magris, lontano da dove? In effetti è soprattutto la nostalgia, a tratti l'angoscia del vivere, che prende forma in queste esistenze a loro modo uniche, ricche e avventurose, e tuttavia fatalmente destinate al fallimento. Tutti i protagonisti dei quattro racconti, pur mostrando una straordinaria capacità di adattamento che li aiuta a sopravvivere, a restare a galla anziché essere "sommersi" dall'onda della storia, si trovano alla fine inermi di fronte al grigiore e alla banalità del quotidiano, al deserto di indifferenza che li circonda, al peso del ricordo, e scelgono perciò volontariamente l'uscita di scena. Anche chi, come Sebald, non è ebreo, avverte che l'esilio ci riguarda tutti perché la condizione ebraica preannunzia lo sradicamento che caratterizza la vita moderna, la marginalità scelta o subita, la lotta contro l'azione disgregatrice del tempo.
C'è un oggetto altamente simbolico che la padrona di una pensione di Manchester regala all'io narrante al suo arrivo in Inghilterra: una stravagante, quanto utile, sveglia-teiera che "col suo luccichio notturno, il leggero gorgoglio al mattino e la semplice presenza durante il giorno" aiuta il giovane a mantenersi attaccato alla vita quando, nella desolazione della grande città in declino, viene colto da un incomprensibile e lancinante senso di solitudine.
Forse non c'è salvezza se non nella lucida consapevolezza della disperazione del vivere. Ognuna di queste ricostruzioni biografiche, originata da un incontro o da un'occasione familiare, conduce a un esito autodistruttivo. Un giovane ebreo lituano, approdato in Inghilterra alla fine del secolo, studia medicina, acquista una nuova identità, diventa inglese, ma alla fine cerca volontariamente la morte per sfuggire all'insopportabile grigiore e al fallimento dei suoi ultimi anni. Paul Bereyter, protagonista del secondo racconto, maestro di scuola dell'io narrante, geniale e anticonformista, costretto all'esilio dal nazismo, torna in Germania per gettarsi sotto al treno e porre fine alla sua disperazione. Anche il prozio del narratore, Ambros Adelwarth, maggiordomo a New York presso una grande famiglia ebraica, e il pittore Max Aurach a Manchester vanno incontro alla fine con profonda consapevolezza, come unico possibile esito della loro condizione.
Sono storie che testimoniano un passato doloroso e rievocano un mondo ebraico-tedesco tragicamente annientato dalla violenza nazista.
Per il pittore Aurach, partito da Monaco nel 1939 accomiatandosi dai genitori che non rivedrà più, il tedesco da allora mai più utilizzato è simile a "un'eco, un cupo e incomprensibile mormorio e brusio".
Perdita della memoria e "sepoltura del linguaggio" sono tutt'uno, come ben sapeva Elias Canetti, anch'egli esule in Inghilterra, che nel 1944 scriveva con coraggio: "La lingua del mio spirito continuerà a essere il tedesco, precisamente perché sono ebreo". Del resto Aurach cercando una nuova vita approda in una città, Manchester, piena di ebrei come lui, sicché ha l'impressione di essere giunto in un certo senso a casa.Tutta questa gente però sa di essere sfuggita ai campi di sterminio, ma non all'angoscia dei ricordi. "Il tempo è un metro di misura inaffidabile" - sostiene ancora Aurach - "anzi non è altro che il brusio dell'anima. Non c'è passato né presente". In un libro di memorie del 1986, Erich Fried - un altro poeta esule in Inghilterra - racconta la profonda commozione di fronte a una vecchia bibbia anglicana scovata su una bancarella coi nomi e le genealogie di famiglia, tutta la memoria delle generazioni passate. La commozione, simile a quella provata da bambino leggendo le storie dei martiri, gli fa tornare in mente le uniche vere parole di consolazione che allora la nonna aveva saputo trovare per lui: "Oggi comunque non potrebbero più essere in vita".
Con uno stile ora sobrio e distaccato, ora debordante e appassionato - reso assai felicemente da Gabriella Rovagnati - l'autore ci trasmette insieme a quella dei personaggi la sua inquietudine di testimone e di cronista, infaticabile raccoglitore di documenti, anch'egli in qualche modo esule o capace di riconoscersi tale nel corso delle peregrinazioni alla riscoperta del passato. Un passato nascosto oppure occultato con abilità o colpevole faciloneria, con imbarazzo o ipocrisia, come il vecchio cimitero ebraico di Bad Kissingen - prototipo di tanti luoghi dell'incuria e della cancellazione della storia. Ma è anche capace di profonda commozione, ad esempio nel rievocare l'armonia del sabato e delle feste ebraiche, ritrovata nel diario della madre di Aurach.
Il sasso posato come d'uso sulle tombe del cimitero semiabbandonato è un segno di rispetto, non cancella la perplessità di fronte alla ferocia e all'assurdità della storia, come in una bellissima poesia di Günter Kunert (dalla raccolta Mein Golem del 1996): "Con uno zaino / sulle spalle si congeda / mio nonno piangendo: il suo treno / va a Theresienstadt. Più tardi / mi tende il Presidente / di tutti i tedeschi la mano / e un'onorificenza... Guardo giù da un finestrino / a diecimila metri e mi riadagio / sul mio sedile / ed è come se leggessi / tutto in un vecchio libro". In un'epoca di facili perdoni, retoriche rievocazioni e colpevoli omissioni cerchiamo di tenerne conto.