"Era una limpida mattinata d'inverno, ma c'era un impercettibile indizio dell'avvicinarsi della primavera, forse perché il cielo, che s'intravedeva dietro i vetri, era azzurro quasi come in estate, o forse per le voci chiassose dei negozianti e dei venditori ambulanti che disponevano la mercanzia nella strada sotto le loro finestre, o forse era il suono così particolare delle campane della chiesa di Vladimir..."
Un aspetto poco analizzato dell’opera di Dostoevskij è il suo antisemitismo. Perché chi si elevò a paladino degli umiliati, dei poveri e degli offesi come lui, ebbe poi tanta ripulsa verso il popolo d’Israele così perseguitato e ferito? L’ebreo assilla per così dire i romanzi dello scrittore russo, che sapeva di dover tanto per il suo messianismo alla matrice giudaica, tanto che ha avuto negli ebrei i suoi migliori lettori e interlocutori. Se il popolo russo è il solo possibile popolo “teoforo”, l’elettività dell’ebraismo viene mantenuta sotto il segno dell’indesiderabilità, del maledetto, del traditore e del buffone, o addirittura, come in un passo dell’”Arcipelago Gulag” di Solženicyn, del molestatore della giovane e bella russa detenuta. Il tema dell’antisemitismo dostoevskijano rimane oscuro e per certi versi indecifrabile, e come scrive Leonid Cypkin, autore di questo straordinario romanzo riscoperto da Susan Sontag: “Mi sembrava strano, fino a essere inspiegabile, che Dostoevskij non avesse pronunciato una sola parola per difendere o giustificare un popolo perseguitato per migliaia di anni (…) Non parlava nemmeno degli ebrei come di un popolo, ma come di una tribù”.