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Hannah Arendt, la Shoah e la banalità del male
Commento di Diego Gabutti
Stefano Massini, Eichmann. Dove inizia la notte. Un dialogo tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann, Fandango 2020, pp. 126, 12,00 euro. Nell’espressione «banalità del male», che Hannah Arendt, inviata del New Yorker al processo Eichmann, adottò per spiegare (e spiegarsi) la mostruosità della Shoah, c’è qualcosa che non torna, come si è spesso fatto notare: la scala colossale dell’evento non può essere liquidata come un incidente storico, sia pure immane e terrificante, come lei (semplificando) sembrò pensare. Non c’è semplicemente modo d’assorbire la Shoah nel pur vasto catalogo degli orrori storici attraverso una fredda e razionale descrizione sociopsicologica del genocidio nazista e dei suoi esecutori: la Shoah è un evento oscuro e imperscrutabile,un evento cosmico, di quelli che debordano nell’apocalittica, nella metafisica. Non perché c’entri davvero la metafisica, di qualunque cosa si tratti, e nemmeno perché la teologia sia una sorta di controstoria,come talvolta qualcuno pretende, ma perché soltanto le maiuscole e l’enfasi esasperata della teologia e delle grandi narrazioni cosmologiche possono dare un’idea, per quanto vaga e imprecisa, di quel che è accaduto e di che cosa sono stati capaci gli Eichmann. Indignata dalla passività degli ebrei, che non si ribellarono ai macellai di Hitler, Hannah Arendt trattò il tema della Shoah con quella che Gershom Scholem definì «disinvoltura».
Adolf Eichmann, Hannah Arendt Perché, si chiedevano Arendt e «i giovani israeliani» degli anni cinquanta e sessanta, gli ebrei «si sono lasciati massacrare»? Scholem scrisse che la domanda era giustificata, e che lui non aveva una risposta, ma ciò che rimproverava a HannahArendt, che conosceva fin dagli anni trenta, erano «l’insensibilità» e«il tono spesso quasi sarcastico e malevolo che impiega per trattare i soggetti che toccano la nostra vita nel suo punto più sensibile. […] Non è il modo adeguato d’affrontare il teatro di questa tragedia». Non meno inadeguato, ancora secondo Scholem, che pure considerava «un errore storico» l’esecuzione dell’uomo che aveva amministrato la soluzione finale, era «la descrizione di Eichmann come un “convertito al sionismo”». Non di meno il reportage da Gerusalemme di HannahArendt, come racconta anche l’asciutta e didascalica piéce di Stefano Massini, ha gettato un fascio di luce sulla natura per così dire mondana e secolare della Shoah,svelandone la struttura antropologica. Massini trascura molte cose,sia il giudizio di Arendt sul «comportamento degli ebrei sotto Hitler» sia il suo giudizio «caricaturale» (così Scholem) sul loro assassino, processato a Gerusalemme. In compenso si diffonde sulla dimensione tecnica, morale e burocratica dei massacri esplorata nella Banalità del male (Feltrinelli 2013). Quello di Arendt non è un discorso originale. «Banalità del male» è la versione arendtiana dei discorsi sulla natura amministrativa del totalitarismo; riecheggia le giaculatorie anni trenta e quaranta della sinistra estrema e moderata (i socialdemocratici, ma anche i goscisti) sulla «natura sociale dell’Urss», com’era chiamata nei pamphlet dell’epoca, opera per lo più di marxisti irregolari (i trotszkisti americani, per esempio, a cominciare da James Burhnam, autore della Rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri 1992, che passò dopo la guerra al partito repubblicano e i cui seguaci, col tempo, confluirono nel movimento cosiddetto «neocon», attivo negli anni di George W. Bush, quando una Casa Bianca neoconservatrice tentò d’«esportare la democrazia» in Medioriente).
Anche in Unione sovietica, come più tardi in Cina, a Cuba e in Cambogia, vi furono genocidi su una scala inimmaginabile, persino più colossale di quella messa in opera nei campi nazisti. Nei paesi realsocialisti si è consumato, per molto più tempo di quanto ne sia stato concesso ai boia di Hitler, il massacro di decine e decine di milioni di «borghesi», kulaki, revisionisti, sionisti, credenti di religioni diverse dal marxleninismo, omosessuali, intellettuali colpevoli di portare gli occhiali o di possedere una biro.Secondo la vulgata antiburocratica, che vedeva nell’assetto burocratico la chiave della «degenerazione» della rivoluzione o anche (a scelta) il suo inevitabile compimento, erano l’ideologia e la «macchina» totalitaria marxleninista a generare questi orrori. Erano gli Eichmann bolscevichi (più tardi cinesi, cubani e khmer) a organizzare e promuovere le atrocità burocratiche, dalla riscrittura dei libri di storia all’ininterrotta successione di carneficine, eccidi, massacri. Dietro l’horror film del Novecento c’erano i burocrati, gli esecutori, le mezzemaniche, i carrieristi dei campi di stupro e tortura, delle camere a gas. Eppure, secondo Arendt come secondo la sinistra antitotalitaria, dentro i burocrati «non c’è nulla»:il vuoto, giusto un quaquaraquà che vuole fare carriera e non discute gli ordini. C’è Eichmann, un travet dell’olocausto, un esecutore spietato ma irresponsabile, un ominicchio. C’è la Macchina totalitaria (chiamatela comunismo o antisemitismo, chiamatela Hitler oppure Stalin) e ci sono i suoi ingranaggi: le guardie dei campi, le SS, il KGB, gli antisemiti da osteria e i comunisti da bocciofila, che normalmente sono insignificanti ma nei quali finisce per incarnarsi,attraverso le tempeste del Novecento, il mostro impiegatizio di Hannah Arendt: la «banalità del male». Tutto questo è giusto, o almeno sensato. Ma non spiega perché e come la storia sia cresciuta a inferno dantesco. Se la burocrazia è il braccio – come sostengono Hannah Arendt e le sinistre antitotalitarie, e dopo di loro Burham e i neocon – qual è la mente? Persino Stalin e Hitler sono ingranaggi: il primo è un bandito georgiano che si è trovato al posto giusto nel momento giusto, il secondo un demagogo accorto e delirante insieme, come ce n’erano tanti nell’Europa uscita dalle trincee della Grande guerra, che a sua volta si è trovato nel momento giusto al posto giusto. Che cosa li muoveva? Se erano marionette, chi era il burattinaio? Undemalum? Se Dio, infinitamente buono, ha creato tutte le creature, diceva Sant’Agostino, come si spiega e da dove viene il male? Dal libero arbitrio? Da una progressiva corruzione del creato? Dall’entropia? C’è un bug nel software della Genesi e del DNA umano? Secondo Eichmann, almeno nella versione drammatica che ne ha dato Massini nella sua pièces, il male è parte della condizione umana: c’è un mostro in agguato dentro ciascuno di noi (mostro io, mostri tutti). Hannah Arendt, nella lettera del luglio 1963 che segna la sua rottura con Gershom Scholem, scrive che «oggi il mio parere è che il male non sia mai “radicale”, che sia solo estremo, e che non possieda né profondità né dimensione demoniaca. [Quando] il pensiero cerca d’attingere alla profondità e di pervenire alle radici viene frustrato perché non trova niente. È questa la sua banalità».
Se c’è un elemento demoniaco, a incarnarlo è la Storia, o meglio la Natura, entrambe maiuscole, alle quali si richiamano i due totalitarismi del Novecento (quando ancora l’islamismo, che in questo inizio di millennio li riassume entrambi, era nel mondo della luna o, come si dice, nel mantello del Profeta). «Alla base della fede nazista nelle leggi razziali come espressione della legge della natura nell’uomo»– scrive Arendt nelle Origini del totalitarismo, Einaudi 2009–«vi è l’idea darwiniana dell’uomo come prodotto di un’evoluzione naturale che non s’arresta necessariamente alla presente specie d’esseri umani; alla base della fede nella lotta di classe come espressione della legge della storia vi è la concezione marxista della società quale prodotto d’un gigantesco movimento storico che corre con rapidità sempre maggiore verso la sua fine, verso il momento in cui si annullerà come storia». Semplici veicoli delle idee sciagurate, la burocrazia e i suoi interpreti, dai leader invasati ai burocrati di basso rango, non sono così innocenti come pretendono, ma in fondo nemmeno così colpevoli. Se gli Eichmann hanno qualche responsabilità, è tutt’al più una responsabilità morale, gravissima ma secondaria, senza qualità: se non hanno reagito all’ingiustizia, come non hanno reagito neanche i perseguitati, non l’hanno nemmeno provocata. Sono semplicemente saltati sul tram dell’orrore che stava passando. Eichmann, in questo dialogo teatrale con HannahArendt, non potrebbe essere più d’accordo, e anche Massini accetta di concentrarsi sugli aspetti puramente tecnici e morali della Shoah, quando tuttavia è perfettamente chiaro, anche sotto il profilo drammatico, che ogni tentativo di spiegare la Shoah senza tener conto del suo terribile privilegio metafisico (cioè della sua«dimensione demoniaca», come la chiama con sprezzante esattezza l’autrice delle Origini del totalitarismo) ma ricorrendo alla chiassosa e tranquillizzante nozione di «banalità del male» (Scholem la definì «uno slogan», Arendt se ne offese, e oggi è a tutti gli effetti uno slogan) appare radicalmente inferiore al compito. Banalizzante no. Ma banale.
Diego Gabutti |
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