IC7 - Il commento di Daniele Scalise
Dal 13 al 19 gennaio 2020
Donald Trump e l'Iran
Ali Khamenei, Qassem Suleimani, Donald Trump
L'insaziabile bisogno di dimostrare a sé e agli altri di avere sempre e comunque ragione produce effetti penosi e ridicoli. L'eliminazione di uno dei peggiori mascalzoni dei nostri giorni, quel Qasem Soleimani che Dexter Filkins aveva descritto così bene sul New Yorker di qualche anno fa ("The Shadow Commander, 23 settembre 2013) ha scatenato l'indignazione di commentatori, esperti, geopolitici, giornalisti e ricercatori. Per non dire dei titoli cubitali in cui si anticipava la ormai prossima quando ineludibile terza guerra mondiale provocata dall'iniziativa incosciente dell'amministrazione Trump. Salvo poi, nel giro di un paio di giorni, constatare che la fine del mondo era stata rinviata a data da destinarsi. Che le mani di Soleimani erano sozze di sangue e che vi sono cause ben più degne di cordoglio.
Fermo restando, hanno insistito gli acuti analisti, che Trump è un incapace, un corrotto, che si tinge i capelli, che è un cafone etc. etc. Se non stessimo parlando di cose serie come gli equilibri mondiali, la minaccia sciita e di un criminale, ci sarebbe da ridere. E' chiaro a tutti che il presidente americano stia sulle balle a molti ma da qui a definirlo rischio per l'intera umanità ce ne passa. Quando Trump decise di trasferire l'ambasciata americana a Gerusalemme, gli stessi cantori avevano previsto reazioni fuori controllo che avrebbero causato lacrime e sangue in Israele e nel mondo occidentale. Nulla di ciò accadde allora come nessuna profezia nefasta si è inverata ora. Tra i commenti più imbarazzanti mi è parso quello di Charles Kupchan, un tempo consigliere del sempre-sia-lodato Barack Obama. "Penso che fosse giusto mandare un segnale di forza all'Iran", è stato costretto ad ammettere il professore di relazioni internazionali alla Georgetown University. Per poi subito rimproverare il presidente Usa di non aver "graduato l'escalation", ammettere che "non vuole la guerra" ma pur sempre accusarlo di aver seguito un impulso "senza considerare le conseguenze".
Ciò che stupisce non sono tanto le sciocchezze che questi signori scrivono quanto il credito che viene loro concesso. Non è necessario essere fedeli sostenitori di Donald Trump per constatare l'ottusa incapacità dei suoi avversari nell'interpretare la realtà e nel dosare i giudizi. Non è la prima volta, non sarà l'ultima. La sera precedente le elezioni americane mi trovavo nella redazione di un quotidiano italiano. Tutto il vertice del giornale era sicuro senza un'ombra di dubbio che Hillary Clinton avrebbe trionfato. E nell'affermarlo vantavano astute e lunghe frequentazioni americane e millantavano fonti privilegiate che solo loro possedevano. Quando sostenni che credevo che si sbagliassero di grosso, che interpretavano il futuro secondo i propri desideri e che da lì a qualche ora sarebbero stati smentiti, mi fissarono tutti un po' increduli. Uno addirittura cercò di giustificarmi: "lo dici per scaramanzia, vero?". Gli risposi che, al di là delle mie convinzioni (pensavo che Hillary alla Casa Bianca sarebbe stato un disastro come aveva già dimostrato di essere in qualità di segretario di Stato) sarebbe stato sufficiente avere anche una pallida idea dello scenario americano per capire che Trump avrebbe avuto la meglio su una rivale così screditata. La mattina dopo, leggendo la prima pagina di quello stesso giornale provai l'ineffabile gioia di leggere come gli stessi si arrampicavano sugli specchi per spiegare e spiegarsi come fosse stato possibile che la storia fosse così sorda alle loro opinioni. Temo che non si siano ancora dati una risposta.
Daniele Scalise