Iraq: dall'Iran missili sulla base con i soldati americani. Israele prepara la difesa Commenti di Giordano Stabile, Paolo Mastrolilli
Testata: La Stampa Data: 08 gennaio 2020 Pagina: 6 Autore: Giordano Stabile - Paolo Mastrolilli Titolo: «Missili sulla base irachena che ospita forze Usa. A Teheran il vertice delle milizie sciite - Iraq, l'America rafforza le truppe per proteggersi dalla vendetta iraniana»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/01/2020, a pag.6, con il titolo "Missili sulla base irachena che ospita forze Usa. A Teheran il vertice delle milizie sciite", la cronaca di Giordano Stabile; con il titolo "Iraq, l'America rafforza le truppe per proteggersi dalla vendetta iraniana", il commento di Paolo Mastrolilli.
In Israele, dopo le minacce da parte del regime iraniano, si è radunato d'urgenza un comitato di difesa. Anche se Israele non è responsabile dell'eliminazione del criminale Suleimani, lo Stato ebraico sa bene di essere il primo obiettivo da colpire per Teheran. Inevitabile quindi che si prepari a difendersi.
Ecco gli articoli:
Esmail Ghaani (a destra), designato successore di Suleimani (a sinistra)
Giordano Stabile: "Missili sulla base irachena che ospita forze Usa. A Teheran il vertice delle milizie sciite"
Giordano Stabile
Almeno tredici missili hanno colpito nella notte la base militare Ain Al Asad, in Iraq, che ospita militari americani, avviando così l'operazione «Soleimani Martire». Ad annuciarlo è la tv iraniana che cita la Guardia Rivoluzionaria. Domani intanto a Teheran ci saranno i leader di tutte le principali milizie sciite irachene, a cominciare da Qais al-Khazali della Kataib Hezbollah, e soprattutto il «figliol prodigo» Moqtada al-Sadr, che un anno fa aveva scandalizzato il defunto Qassem Soleimani con il suo viaggio a Riad ma che adesso è tornato sotto l'ala dei pasdaran ed è anzi il più deciso, almeno a parole, a «cacciare gli americani da tutto il Medio Oriente». Nel summit «dell'asse della resistenza» ci saranno anche emissari di formazioni siriane e dell'Hezbollah libanese, anche se non il leader Hassan Nasrallah, che a quanto pare ha limitato al massimo gli spostamenti nel timore di finire nel mirino di un drone pure lui. Il vertice, prima previsto a Baghdad, è stato poi spostato «per ragioni di sicurezza». Ma l'intento è chiaro. Un fronte unico per dare una «risposta devastante» all'uccisione del comandante delle Forze al-Quds, anche se la vendetta dovrà essere firmata in prima persona dai pasdaran, come ha chiesto la guida suprema Ali Khamenei. Teheran deve però calibrare la risposta in base alla dislocazione delle forze Usa, e in questo momento è in corso un gigantesco riposizionamento dei contingenti americani. E questo costringe gli iraniani ad allargare le opzioni di rappresaglia. Ieri l'ammiraglio Ali Shamkhani ha rivelato che l'Iran «ha 13 diversi scenari» davanti a sé, e ognuno sarà «un incubo di proporzioni storiche». Gli Stati Uniti, ha continuato, «si sono chiusi dentro i rifugi nella speranza di sfuggire alla nostra vendetta, ma la Repubblica islamica aprirà le porte dell'inferno». Sono nel mirino "19 basi" nel Golfo e «tutte le aree che danno appoggio logistico» alle truppe americane. Un avvertimento a Qatar ed Emirati arabi, considerati per diverse ragioni gli anelli deboli del sistema di alleanze americano e che ospitano installazioni statunitensi alla portata di droni e missili balistici. E a Israele, che il comandante supremo dei pasdaran Hossein Salami, ha minacciato di nuovo. Ma l'Intelligence americana non esclude neanche l'azione di «cellule in sonno» negli Usa, contro obiettivi civili o «altre personalità». Per rendere più credibili le minacce ieri il Parlamento iraniano ha votato una legge che dichiarato il Pentagono «un'organizzazione terroristica». C'è molta retorica, ma il «fronte della resistenza» è convinto di aver il vento a favore. Il clima di commozione popolare ha superato ogni limite, come si è visto ieri all'ultimo saluto al feretro di Soleimani, nella sua città natale di Kerman, dove la ressa ha causato un cinquantina di morti. Ma se l'uccisione del generale ha ricompattato la Repubblica islamica, il blitz americano ha colto di sorpresa diplomatici e alti comandi occidentali, in un clima che rivelazioni all'Afp hanno descritto come «uno shitstorm». In particolare, ufficiali statunitensi e iracheni «non si parlano più e non si guardano neppure in faccia». Una situazione che allarma anche la Francia. Macron ha chiamato Rohani e gli ha chiesto di astenersi da rappresaglie e riprendere la collaborazione nella lotta all'Isis in Iraq. Le divisioni occidentali sono sfruttate dalla propaganda iraniana, che ha rilanciato nuove dichiarazioni di fuoco di Adel Abdel Mahdi. Dopo aver accusato gli Usa di aver attirato Soleimani in una «trappola», ieri il premier iracheno ha rivelato di aver ricevuto «minacce di morte». E ha ribadito di aver ricevuto una lettera firmata che annunciava il ritiro Usa poi smentito. Alla linea dura si è accodato anche l'ex premier Haider al-Abadi, un tempo vicino agli Usa: l'intesa per il ritiro «c'è già». In questo senso va anche l'annuncio di Germania e Canada sul ritiro di «parte» delle loro truppe.
Paolo Mastrolilli: "Iraq, l'America rafforza le truppe per proteggersi dalla vendetta iraniana"
Paolo Mastrolilli
«Andiamo in guerra, fratello». Così si sono salutati i paracadutisti della 82nd Airborne Division, parlando con i giornalisti della Reuters mentre lasciavano la base di Fort Bragg. Loro sono la spina dorsale dello spiegamento di circa 4.500 soldati e mezzi nella regione mediorientale, ordinato dal Pentagono per rafforzare le difese in vista della rappresaglia annunciata dall'Iran, dopo l'eliminazione del capo dei pasdaran Soleimani. Secondo una ricostruzione del New York Times, la mobilitazione non ha lo scopo di preparare una potenziale invasione come quella del 2003 in Iraq, anche perché un eventuale conflitto aperto con la Repubblica islamica verrebbe combattuto usando soprattutto le forze aeree, navali e cibernetiche, invece di rischiare gli «stivali sul terreno». In questa fase, comunque, la prima preoccupazione del Pentagono è garantire la protezione dei cittadini americani, delle sedi diplomatiche e delle basi militari, che potrebbero diventare gli obiettivi della ritorsione. Intanto il sottosegretario di Stato David Hale sarà alla fine della settimana a Bruxelles per incontrare i partner europei. Mentre Mike Pompeo è tornato a difendere la legittimità dell'uccisione di Soleimani: «Quando un presidente prende una decisione così, ci sono informazioni multiple che ci sono state presentate». Il capo del Pentagono Mark Esper ha aggiunto: «Non andiamo via da Baghdad, non vogliamo iniziare la guerra ma sia mo pronti a finirla». Cellulari a casa Il grosso del contingente, circa 4.000 uomini, verrà fornito dalla 82nd Airborne Division e sta già partendo per il Kuwait, dove stabilirà una forza di intervento rapido pronta ad intervenire ovunque diventasse necessario nella regione. I militari hanno ricevuto l'ordine tassativo di lasciare i cellulari a casa, perché in passato l'uso di questi apparecchi aveva consentito al nemico di localizzare la posizione dei reparti. Altri cento paracadutisti del 173rd Airborne Brigade Combat Team stanno partendo dalla loro base di Vicenza, in Italia, allo scopo probabilmente di difendere l'ambasciata americana a Beirut, in Libano, già colpita da Hezbollah nel 1983 e nel 1984. Nello stesso tempo circa cento Marines del Second Battalion Seventh Marine Regiment, impegnati durante le settimane scorse per assistere il ripiegamento dei militari americani dal nord della Siria, stanno rinforzando la sicurezza della sede diplomatica a Baghdad. Sullo sfondo di questi trasferimenti immediati, ci sono poi movimenti più ampi di lungo termine. Sei bombardieri B52 sono stati inviati nella base Diego Garcia dell'Oceano Indiano, da cui possono decollare per colpire direttamente il territorio iraniano, senza la possibilità di essere minacciati nei loro hangar. La 26th Marine Expeditionary Unit, con circa 2.200 soldati e mezzi come elicotteri e jet, sta navigando a bordo delle navi del Bataan Amphibious Ready Group, destinato ad attraversare il Mediterraneo e arrivare in breve nel Mar Rosso, in base ad uno spiegamento già pianificato da tempo. La portaerei Truman resterà nell'area fino a marzo, quando verrà rimpiazzata dalla Eisenhower. Nella regione ci sono già tra 45.000 e 65.000 soldati americani, con la forbice di incertezza legata al fatto che i numeri cambiano quasi ogni giorno. In Turchia sono di stanza altri 2.000 uomini presso la base di Incirlik, che custodisce alcune bombe atomiche della Nato, ed è stata la chiave delle recenti operazioni contro l'Isis, nonostante le crescenti tensioni con gli Usa che hanno fatto ipotizzare anche un trasferimento degli ordigni nucleari ad Aviano, in Italia. Poi ci sono i 5.500 in Iraq, il cui futuro resta incerto dopo la richiesta del Parlamento locale di ritirarli. Il premier Mahdi ha confermato di aver ricevuto la lettera per il loro richiamo, poi smentita lunedì dal Pentagono. Da maggio in poi Washington aveva già aggiunto circa 14.000 a questo schieramento, che ora si rafforza. Lo scopo dichiarato è difensivo, ma l'impiego potrebbe cambiare in poco tempo in base alle necessità.
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