La seconda fase della politica di Trump in Medio Oriente 06/01/2020
La seconda fase della politica di Trump in Medio Oriente Analisi di Antonio Donno
Qassem Soleimani con Ali Khamenei
Una giornalista di Rai1 ha intervistato un collaboratore della rivista “Limes”, il quale ha ripetuto più volte, con faccia molto seriosa, che la decisione di Trump di rispondere all’assalto sciita all’Ambasciata americana a Baghdad con l’eliminazione del capo dei terroristi Qassem Soleimani sarebbe stata una “reazione emotiva” e sproporzionata rispetto ai fatti. Probabilmente, il collaboratore di “Limes” ha ignorato, o ha finto di ignorare, che un attacco ad una Ambasciata è un attacco diretto ad un paese straniero, una violazione gravissima della sovranità di quel paese, secondo le più elementari regole del diritto internazionale. È quindi assurdo, oltre che dimostrazione di incompetenza, affermare che l’eliminazione di Soleimani è stata una “reazione emotiva” di Trump e dei suoi collaboratori. Soleimani era il capo diretto o indiretto di tutte le formazioni terroristiche iraniane o filo-iraniane presenti capillarmente in tutti i punti strategici del Medio Oriente, secondo un piano assai ben coordinato ed eseguito di accerchiamento di Israele. Ciò aveva portato Teheran ad acquisire una posizione preminente nella regione, a partire dal sostegno decisivo concesso al siriano Assad per la sopravvivenza del suo regime. A ciò si deve aggiungere il fatto che, nel corso di attuazione di questa strategia, le milizie comandate da Soleimani avevano ucciso circa seicento militari americani in attacchi terroristici, uno stillicidio che la stampa internazionale ha ignorato, trattandosi di ordinaria realtà negli eventi del Medio Oriente. L’assalto all’Ambasciata americana di Baghdad, dunque, è stato l’ultimo e più grave episodio di terrorismo attuato dalle formazioni sciite capeggiate da Soleimani contro gli Stati Uniti. La decisione di Trump di liquidare il capo terrorista Qassem Soleimani non è stata, dunque, una “reazione emotiva” del Presidente americano, con buona pace del collaboratore di “Limes” e di tutti gli anti-trumpiani di professione. La morte di Soleimani, perciò, non deve essere considerata un episodio a se stante nella politica del Presidente americano verso la regione mediorientale. Questa politica si va definendo a partire dalla liquidazione del capo dell’Isis Al-Baghdadi. In tutto ciò che ne è seguito vi è anche la mano del Segretario di Stato, Mike Pompeo, e del Segretario alla Difesa, Mark Esper. Ne è derivata una modificazione tanto sostanziale quanto pubblicamente non dichiarata della strategia americana per il Medio Oriente, che va affiancandosi alle nette posizioni che Trump aveva assunto a favore di Israele nel corso della sua presidenza. Ora il quadro va assumendo contenuti più coerenti e precisi. Per quanto Trump dichiari di non voler rovesciare il regime di Khamenei – facendo affidamento sull’ormai calante sopportazione della popolazione iraniana delle condizioni di vita e della repressione interna imposti dal regime –, resta evidente che il presidente americano ora stia modificando le sue sempre dichiarate posizioni sul ritiro degli americani dai teatri di guerra. La decisione di liquidare Soleimani e di prepararsi ad una decisa reazione di fronte alla risposta iraniana, inviando altre truppe, sta a significare una svolta nelle decisioni di Trump in campo militare verso la questione mediorientale. Del resto, la strategia del presidente, in campo strettamente politico, non poteva essere sufficiente di fronte all’imperversare delle azioni terroristiche iraniane pianificate da Soleimani a largo raggio nella regione. La creazione di un legame politico tra Stati Uniti, Israele e mondo sunnita in contrapposizione all’ambizione dell’Iran sciita di dominare il Medio Oriente, oltre che le decisioni a favore di Israele, sembrano ora non più sufficienti per arginare la presenza sciita sempre più minacciosa che Soleimani aveva strutturato per mezzo di azioni militari sia sulla terraferma, sia nello Stretto di Hormuz e che sarà ereditata dal suo successore. L’uccisione di Soleimani, dunque, deve essere interpretata come una nuova, più incisiva fase della presenza americana in Medio Oriente, anche come risposta alle reazioni di Teheran dopo la morte del capo terrorista. C’è da vedere quali forme assumeranno queste reazioni e quale sarà la contro-reazione degli Stati Uniti.