Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi,04/01/2020, a pag.38 con il titolo "I demoni del mio amico Amos Oz" il commento di David Grossman.
David Grossman
Né leader, né profeta Chi lo conosceva percepiva lo sforzo che faceva per essere semplicemente un uomo mos era per me un maestro e un amico. All'incirca una volta al mese partivo di mattina presto da casa mia, vicino a Gerusalemme, per andare a trovarlo a Ramat Aviv, un quartiere di Tel Aviv, dove mi preparava, a suo dire, «il miglior caffè della città», e ci mettevamo a chiacchierare. Non sono sicuro che il suo fosse il miglior caffè della città; la sua compagnia, però, lo era senz'altro. Parlavamo della situazione in Israele, alla quale non sembra esserci una soluzione (un sogno che si è infranto), parlavamo di libri che avevamo letto, di nostri colleghi, di cose che avevamo scritto, di problemi in cui si imbattono gli scrittori, di blocchi creativi. E parlavamo delle nostre famiglie, dei nipoti, della realtà che lasceremo loro in eredità. Non mi ero guadagnato facilmente la sua fiducia. Penso che la sua esperienza di vita gli avesse insegnato a essere un po' sospettoso, o per lo meno cauto nei confronti degli altri. Durante le mie prime visite si sedeva in poltrona davanti a me mantenendo però il corpo e la faccia girati di lato. Ascoltava poco e parlava molto. Anzi, sermoneggiava.
Amos Oz
A ogni mia nuova visita, però, si voltava di qualche centimetro, sermoneggiava meno e discorreva e ascoltava di più. E quando me lo ritrovai seduto di fronte, faccia a faccia, capii che aveva iniziato a fidarsi di me. Era un uomo di grande spessore, nobile anche nei confronti dei suoi detrattori. La sua era una nobiltà ottocentesca, lievemente anacronistica. Questo non significa che non avesse passioni, forti pulsioni, o che non fosse perseguitato da demoni alla Dostoevskij. E io, in quanto suo amico e lettore, so quanto lottasse contro di loro. Ma col passare degli anni, e dei libri, sembrava che avesse raggiunto una sorta di equilibrio interiore, di lucidità, che gli permetteva di affrontare con autentico eroismo il complesso, esigente e ingombrante fardello di "essere Amos Oz". E non gli era facile essere Amos Oz. Non gli era facile essere una persona alla quale molti, in tutto il mondo, volgono lo sguardo, dalla quale si aspettano un consiglio. Una persona che la gente considera un maestro, un leader e persino un profeta, e ammutolisce quando parla. Non gli era facile essere un personaggio idealizzato sul quale molti, talvolta, proiettano aspettative, speranze e delusioni: ciò che a loro appare intricato e senza via di uscita. Non gli era facile essere l'oggetto di ondate di amore e di ammirazione che racchiudono, immancabilmente, una certa dose di idealizzazione. E non gli era facile sostenere gli attacchi ostili — vere e proprie demonizzazioni — di chi riteneva che le sue opere avessero promesso qualcosa che non avevano poi mantenuto: attacchi di amanti delusi trasformatisi in nemici. Dopotutto sia l'idealizzazione che la demonizzazione sono facce di una "disumanizzazione" le cui deleterie conseguenze Amos conosceva bene: o si è tentati di accettare ciò che gli estranei proiettano su di te, o si diventa prigionieri della propria storia. E com'è difficile manovrare fra queste due alternative per mantenere la propria intima, autentica umanità. Chi conosceva Amos percepiva talvolta lo sforzo sovrumano che faceva per essere semplicemente un uomo. E quello ancora più grande per essere un "uomo" nel senso più completo del termine. Ma forse, più che altro, ad Amos era stato difficile risorgere dalle macerie del bambino fragile e delicato la cui madre si era tolta la vita per diventare l'uomo che, grazie alla sua saggezza e alla sua personalità, aveva acquisito autorità, forza e leadership agli occhi di milioni di persone, in Israele e nel mondo. Penso ad Amos scrittore e opinionista e a ciò che, con i suoi scritti, riusciva a risvegliare in così tanti lettori, commovendoli, emozionandoli e turbandoli. Penso ai suoi personaggi, ma anche alle persone reali che aveva per esempio incontrato durante i suoi giri in Israele nell'autunno del 1982. Giri dai quali era scaturito uno dei suoi libri migliori: In terra di Israele. Nel leggere questo saggio avvertiamo ciò che avrebbero avvertito in seguito gli innumerevoli lettori di Una storia di amore e di tenebra: la presenza di un qualche segreto inafferrabile celato sul fondo dell'esistenza israeliana. Un segreto difficile da descrivere a parole. Una specie di vibrazione della coscienza, incessante, spirituale. La vibrazione di una memoria antica, di traumi insopportabili non del tutto assimilati e compresi, di una profonda insicurezza esistenziale che è presente in noi accanto a una qualche esagerata auto ammirazione e a un'incauta autostima. Più che altro, però, credo che sia la vibrazione di un'offesa terribile, millenaria, che non trova consolazione: quella di un popolo perseguitato e odiato che è stato quasi sterminato. E com'è emozionante leggere tutto questo in un libro. E com'è difficile viverlo. Ogni scrittore, ogni individuo, conformemente alla propria personalità e alle circostanze della propria vita, dà risalto a segnali che ricerca, ed è destinato a trovare, nella realtà che lo circonda. In questo senso i libri di Amos, in particolare Una storia di amore e di tenebra, sono un evidente riflesso della sua biografia personale, delle sue pulsioni, delle sue contraddizioni e delle simpatie politiche e ideologiche - comuniste e revisioniste - , della sua famiglia. Sono queste le forze che rendono i libri e i personaggi di Amos - reali e immaginari - tanto significativi e avvincenti. Solo i fanatici di entrambi le estremità dell'arco politico han• no infatti la certezza di possedere la verità assoluta, liquidando e disconoscendo quegli aspetti della realtà che non coincidono con le loro opinioni e con le loro aspirazioni. E nella biografia di Amos, e forse anche nella struttura della sua anima, erano racchiuse quelle estremità, quelle contraddizioni, quegli opposti, ma anche ciò che li univa. Erano quelli ad attrarlo, a sedurlo, a stimolarlo e a risvegliare qualcosa in lui. E anche se spesso abbiamo l'impressione che l'Amos Oz scrittore fosse giunto a una particolare conclusione ancor prima di aver intrapreso un determinato percorso, ecco che invece vi arrivava dopo avere affrontato tematiche che suscitavano in lui terrore, turbamento, vergogna e senso di colpa. E questo perché quelle tematiche erano parte integrante di lui, non poteva disconoscerle del tutto. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto probabilmente negare qualcosa che esisteva dentro di lui, nel profondo, alla radice della sua anima. E quindi, anche se alla fine del percorso del protagonista di un suo romanzo, o in conclusione di un intero libro, Oz esprimeva una chiara posizione morale, politica, umana, noi lettori avevamo compiuto l'intero cammino e sentito dispiegarsi dentro di noi un ampio ventaglio di sentimenti, di pensieri, di pulsioni, di istinti. Anche quelli che consideriamo abominevoli, che sappiamo essere distorsioni o tare che "girano in famiglia" da generazioni. Grazie ad Amos e al suo talento unico vi ci immergevamo, ne restavamo scottati, e forse anche sedotti. Avvertivamo pero i dilemmi di chi le aveva descritte e a tratti ci allontanavamo da lui. Altre volte, invece, era Amos stesso ad apparirci come un personaggio dei suoi libri: sensibile, onesto, razionale, razionalista, ma incapace di migliorare, anche di poco, la nostra intricata e tormentata esistenza. E questa incapacità suscitava in noi frustrazione e talvolta rabbia ... Fin qui sull'Amos scrittore, intellettuale, leader. Vorrei ora spendere qualche parola sull'Amos Oz uomo, che una volta mi disse: «Da giovane odiavo mio padre perché pensavo che fosse colpa sua se mia madre si era uccisa. Poi ho odiato mia madre perché come aveva potuto farmi una cosa simile? Come aveva potuto uscire di casa senza lasciare detto dove andava? Ogni volta che uno di noi usciva, pretendeva che lasciassimo un biglietto sotto un vaso...». «Ma soprattutto ho odiato me stesso», proseguì Amos. «Perché se mia madre si era suicidata, allora probabilmente non mi voleva abbastanza bene. Ma come poteva essere? Anche le madri dei nazisti volevano bene ai figli. E la mia no? Solo quando sono nati i miei figli», concluse Amos, «ho iniziato a mostrarmi indulgente con i miei genitori, ad amarli. Solo allora sono riuscito a capirli. E quando ho scritto Una storia di amore e di tenebra, in pratica mi sono trasformato un pochino nel "padre dei miei genitori"». L'ultima volta che andai a trovarlo, un mese circa prima della sua morte, mi chiese di venire con mia moglie, Michal. Fu un incontro diverso dai precedenti. Amos era in gran forma: spiritoso, sagace, ironico, brillante. La presenza femminile di Michal lo ispirava. Raccontò della sua giovinezza al kibbutz Hulda, degli studi universitari, e fece una fantastica imitazione del filosofo Hugo Bergman. Non accennò quasi alla sua malattia, che era già a uno stadio avanzato. Disse soltanto: «L'architetto del nostro corpo è un genio, ma l'impresa edile che lo ha costruito ha imbrogliato sui materiali». Michal e io ridemmo, ma Amos probabilmente notò l'espressione del mio viso perché disse: «Non avere compassione di me. Ho avuto una vita bellissima. Molto più di quanto potessi credere. Ho dei figli affettuosi, una moglie, Nilli, che adoro, e i miei libri sono letti in tutto il mondo. Ho ricevuto molto più dalla vita di quanto potessi chiedere». Un anno senza Amos. Ha lasciato un gran vuoto e sento la sua mancanza.
Traduzione di Alessandra Shomroni
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