Pini e accette, acqua e sangue, terra e pietra. L'uomo e la natura, nelle vedute di una patria contesa da popoli diversi e tuttora in balia della pazzia umana. Molti sono gli intrecci dolorosi che si accumulano tra le pagine di questa prima raccolta di racconti di Yehuda Gur-Arye, scrittore israeliano della "generazione dello Stato", da oltre trent'anni conosciuto soprattutto come poeta.
La piacevolezza del profumo delle pinete in Galilea e degli agrumeti del kibbutz, il denso odore di libri antichi, l'oriente che si disperde nella foschia del hamsin, nell'anima del deserto; ebrei, musulmani e cristiani di varie confessioni e diversi credi, uomini e donne, israeliani di origini ashkenazite e sefardite, palestinesi, beduini, monaci greco-ortodossi e sopravvissuti alla Shoah; nel presente e nel passato, in una città moderna e nella casba di un villaggio arabo in Samaria, in un fiorente kibbutz come in un ufficio ministeriale di Tel Aviv o in un monastero nel deserto di Giudea: tolte alla storia (ed in certi casi alla cronaca israeliana degli ultimi decenni del Novecento), queste figure vanno a inserirsi in vicende vissute sull'orlo del precipizio, descritte con freddo realismo e spesso dal finale tragico; per brevi momenti, tuttavia, le storie di Vetro di Hebron sanno svelare dal profondo una vena lirica, intrisa di quell'umanità che diviene motivo principe di riscatto non solo per i protagonisti dei racconti ma anche per il linguaggio e la poetica del loro autore.