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Diego Gabutti
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Il mito del 'bolscevismo ebraico' 23/12/2019
Il mito del 'bolscevismo ebraico'
Analisi di Diego Gabutti


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Paul Hanebrink, Uno spettro si aggira per l’Europa. Il mito del bolscevismo ebraico, Einaudi 2019, pp. 310, 30,00z euro, eBook 12,99 euro.


Tutta la storia, quando finalmente se ne esce e si può raccontare, è una storia di fantasmi. Tra gli spettri del Novecento spicca il «giudeo bolscevico», un mito di cui Paul Hanebrink ricostruisce le peripezie attraverso l’immaginario del secolo forse più feroce e sventurato di quanti ne ricordino gli storici. Quello dell’ebreo ferocemente comunista, che prima devasta la Russia contadina e poi vuole mettere a ferro e fuoco il mondo intero, a cominciare dall’Europa dell’economia di mercato, e in primis dalla Germania umiliata dalle potenze vincitrici, è un fumetto ideologico dalle conseguenze apocalittiche che comincia nel 1917, quando «l’ebreo Lenin» (che non è ebreo) e «l’ebreo Trockij» (ebreo, ma non particolarmente osservante) prendono il potere a Mosca e San Pietroburgo, dopodiché tentano spavaldamente la sorte prima con un mezzo tentativo subito abortito di marciare su Varsavia, poi provando ad allargarsi in Ungheria con la repubblica bolscevica di Bela Kun («un altro ebreo», se lo additano tra loro fascisti e nazionalisti) e infine lanciando i dadi anche in Germania, nel 1919, con la repubblica dei consigli bavarese (che resta in piedi giusto due o tre settimane, il tempo d’espropriare e mettere al muro un po’ di gente, secondo copione leninista). Un po’ tutti, nell’Europa dei controrivoluzionari, antisemiti per antica vocazione, mettono in relazione «giudei» e bolscevichi, fantasticando che dietro il comunismo ci sia un complotto dei Savi di Sion (un complotto in atto fin dai tempi di Marx e di Bakunin, per quanto entrambi fossero antisemiti persi, il primo nel suo inconfondibile stile intellettualistico, il secondo smaniando come gli antisemiti da osteria, o meglio da birreria bavarese). Primo inciampo del ventesimo secolo: l’Ottobre del 1917. Pochi anni dopo un nuovo saltafosso: Hitler e i suoi seguaci, l’inciampo che conduce direttamente ad Auschwitz. A Monaco di Baviera, nei giorni della repubblica consiliare, le strade dell’NSDAP, il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, s’incrociano con quelle del «giudeo bolscevico», e c’è il cortocircuito Un classico antisemita come Hitler, convinto che gli ebrei abbiano il controllo dell’economia globale, e che siano l’anima nera del capitalismo insieme ai massoni, agli artisti d’avanguardia e alla borghesia liberale, gli uni e l’altra strumenti della grande congiura, ci mette poco a figurarseli anche come gl’ispiratori della rivoluzione comunista (che però nei massoni e nei liberali vede insetti da schiacciare: l’opera di pulizia, nelle neonate repubbliche sovietiche, è subito cominciata). È quanto già adombrava la polizia segreta zarista nei suoi Protocolli dei Savi Anziani di Sion (il falso all’origine d’ogni futura dezinformatsiya).

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Un'immagine di propaganda antisemita nazista


Se l’antisemitismo, secondo i socialdemocratici austriaci, è «il socialismo degl’imbecilli», una teoria del complotto (come si direbbe oggi) coltivata dalle frange più estremiste del movimento operaio non soltanto tedesco, Hitler e i controrivoluzionari del suo stampo si apprestano a diffondere un’idea altrettanto idiota, dunque perfettamente degna di loro, del bolscevismo russo. Non sono i soli. «Le radici che il nazismo affondava nella politica controrivoluzionaria bavarese» scrive Hanebrink «univano l’immagine dell’ebreo bolscevico demonizzata da Hitler e dai suoi compagni di partito con lo spettro del bolscevismo giudaico paventato in tutta Europa negli anni tra il 1917 e il 1923. Dal Vaticano ai salotti parigini fino alle caserme dei paramilitari nell’Ungheria meridionale, la storia della Repubblica dei Consigli di Monaco sembrava la prova dell’esistenza di un complotto ebraico volto a rovesciare la civiltà e imporre un dominio straniero alle nazioni europee. Il linguaggio utilizzato da Hitler nelle birrerie di Monaco all’inizio degli anni venti per tuonare contro il marxismo ebraico non sarebbe sembrato fuori luogo in un qualsiasi circolo antibolscevico di tanti altri paesi». Esaurita la tempesta del primo dopoguerra, la «rivoluzione internazionale» predicata dai bolscevichi decresce a «socialismo in un paese solo», ma il mito del «giudeo bolscevico» non demorde. In Francia – nel 1936, vigilia della nuova guerra – il Front populaire vince le elezioni e Léon Daudet – compagno d’avventure estetiche e «incomparabile amico» di Marcel Proust, che gli dedica il terzo volume della Recherce, ma anche cofondatore con Charles Maurras del giornale antisemita e nazionalista Action française – commenta il risultato elettorale «paragonando» Léon Blum, il neopresidente socialista del consiglio, «a un cane il cui “destino etnico” è il suo padrone, un padrone che l’aveva “portato a fare una pisciata ebraica e una cacata comunista”». In trasparenza, dietro la brutalità del linguaggio adottato dagli antisemiti, «licenze poetiche» che all’epoca divertono i lettori di Daudet e di Céline e non sembrano far male a nessuno, ci sono già i campi di sterminio nazifascisti. (Proprio la lingua, anzi, è la prima vittima del repulisti hitleriano, come spiega Victor Klemperer nel suo classico LTI, la lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina 2011). Finita la guerra, quando l’Armata rossa occupa le nazioni che hanno collaborato con le Einsatzgruppen hitleriane nel rastrellamento e nello sterminio degli ebrei ungheresi, polacchi, rumeni, ucraini, slovacchi e via elencando piaghe mai davvero rimarginate, del «giudeo bolscevico» diventa difficile parlare visto che la parte «bolscevica» della cospirazione è al potere. Ma i comunisti russi, che all’antisemitismo non sono mai stati estranei, cancellano dalla memoria ufficiale dell’est europeo il mito del «giudeo bolscevico» e mettono al centro del loro feuilleton ideologico un nuovo, più duraturo, spaventapasseri giudaico: il sionismo, naturalmente, ma prima ancora le «lagne» e il «vittimismo» degli ebrei scampati all’Olocausto.

È l’inizio della banalizzazione (via, abbiamo sofferto tutti, anche chi ha collaborato con Hitler) che presto genererà la sua metastasi: il negazionismo, che nasce proprio all’interno dei circoli goscisti e ipercomunisti europei. «In Romania» scrive ancora Hanebrink «Ana Pauker [vicepresidente del consiglio della repubblica popolare rumena, ebrea] offrí l’amnistia ai legionari della Guardia di Ferro [antisemiti così sanguinari e feroci da sgomentare gli stessi hitleriani] ammettendo che “erano piú numerosi di quanto avesse immaginato” e che “soprattutto avevano un grande seguito operaio”». Quanto ai «leader di partito ungheresi consigliarono agli ebrei di rinunciare alle loro richieste di giustizia. Nel 1946 György Aczél, segretario di una sezione locale del partito, dava istruzione agli ebrei del posto di “finirla di mettere a soqquadro i villaggi per ritrovare i [loro] utensili da cucina”». Sempre in Ungheria, subito dopo la proclamazione della repubblica, appare sull’organo ufficiale del partito, il Szabad Nép, un articolo intitolato Una parola onesta sulla questione ebraica! (proprio così, con l’esclamativo). Ne era autore «József Darvas, ben noto come scrittore e attivista di estrema sinistra del movimento popolare ungherese, che si rivolgeva soprattutto ai contadini (Darvas era una figura di spicco del Partito nazionale contadino, e dopo il 1948 serví il regime comunista con incarichi ministeriali). L’articolo», tra le altre cose, «avallava l’isterica retorica fascista sulla “vendetta ebraica”; e insinuava che gli ebrei stessero sfruttando la loro condizione di vittime per vivere come parassiti dell’onesto lavoro del popolo ungherese». Con ogni probabilità, aggiunge Hanebrink, «si tratta del primo scritto apertamente antisemita pubblicato in Ungheria dopo la vittoria sovietica, e del primo segno del ruolo complesso che gli ebrei e l’antisemitismo avrebbero ricoperto nella strategia politica comunista in Ungheria e nel nascente blocco sovietico». Pochi anni dopo, alla «parola onesta sulla questione ebraica» di József Darvas, seguiranno degli onesti fatti, anche questi col punto esclamativo: il «complotto dei medici» a Mosca, la propaganda antisraeliana, l’invenzione del «palestinismo» nelle aule dell’Università Lumumba di Mosca, dove fior di nichilisti impararono il bi e il ba del terrore. Purtroppo, il libro di Paul Hanebrink ha un epilogo, dove ad aggirarsi per l’Europa è un nuovo spettro: non più il «giudeo bolscevico» ma il «musulmano terrorista». Hanebrink, scivolando fuori tema, si sposta dal terreno della storia (la storia dell’antisemitismo in Europa) a quello dell’ideologia, dove al momento il fantasma più pericoloso che vi si aggira non è quello del «musulmano islamista», come scrive lui, ma quello delle buone cause: il «gretismo» (da Greta Thunberg) climatico, l’antifascismo di maniera e la guerra all’«islamofobia» (se la «parola onesta sulla questione ebraica» si merita un esclamativo, l’«islamofobia» va premiata almeno con due grosse virgolette).

Hanebrink, nell’epilogo, sostiene la bizzarra (ma assai diffusa) tesi che accomuna il destino dei «migranti di religione musulmana» nel tempo presente a quello degli ebrei tra le due guerre mondiali. È peggio d’una bestemmia: è una sciocchezza. Gli ebrei braccati da Hitler non erano migranti; erano a pieno titolo cittadini polacchi, tedeschi, francesi, rumeni, italiani, ungheresi, slovacchi, ucraini eccetera. Nessuno, in Europa, predica lo sterminio dei musulmani (sono i leader musulmani, piuttosto, a predicare la distruzione d’Israele) e soltanto un idiota potrebbe paragonare i pamphlet d’Oriana Fallaci alle Bagatelle per un massacro di Céline o alla prosa elegante (vista più sopra) dell’azzimato esteta parigino Léon Daudet. Ebrei e gentili, prima che si scateni il caos, sono tutti europei. Studiano nelle stesse scuole, lavorano negli stessi uffici, leggono gli stessi libri e giornali, si servono nelle stesse botteghe, ridono delle stesse barzellette, guardano gli stessi film; e sia gli uni sia gli altri sono sempre più laici e irreligiosi. Inoltre, l’antisemitismo che sfocia nella Shoa non odia soltanto il «comunismo giudaico». Odia anche il «liberalismo semitico», la «scienza ebraica», la «democrazia cosmopolita». Gli ebrei, trasformati in alien e subumani già dagli antisemiti ottocenteschi, sono elevati dagli antisemiti del Novecento a maestri segreti di tutto ciò che minaccia ciò che loro chiamano Tradizione (con la maiuscola, come nei romanzi fantasy). Qualcuno, allora, può seriamente pensare che i «sovranisti» e le SS siano la stessa cosa? Che Boris Johnson e Reinhard Heydrich siano fratelli? O che detestare la Sharia, sperando non venga mai introdotta in Occidente, sia la stessa cosa che detestare, come facevano gli hitleriani e i comunisti, le libertà politiche e civili? Hanebrink (il cui libro raccomando lo stesso, epilogo a parte) sembra pensarlo. Strano pensiero.

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Diego Gabutti

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