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Margaret Thatcher. Una biografia
Commento di Diego Gabutti Elisabetta Rosaspina, Margaret Thatcher. Biografia della donna e della politica, Mondadori 2019, pp. 282, 22,00 euro, eBook 10,99 euro. A proclamarla «Iron Lady», Lady di Ferro, non fu un simpatizzante, come si potrebbe (conoscendola) pensare, ma il capitano «Yurij Gavrilov, caporedattore di Krasnaja Zvezda, Stella Rossa, organo ufficiale delle forze armate sovietiche». Non voleva essere un insulto ma nemmeno un complimento: Gavrilov puntava a una definizione insieme satirica e sprezzante, nel classico gergo machista-leninista da guerra fredda. Mancò il bersaglio e, invece di metterla in ridicolo, elevò a Margaret Thatcher un monumento. Sono passati decenni dalla caduta del suo ultimo governo, è successo di tutto (guerre del golfo e guerre contro il terrorismo, le Twin Towers e Charlie Hebdo, la morte di Lady Diana, Boris Johnson) e il monumento è ancora in piedi. Non è un monumento al partito conservatore, di cui lei fu il primo leader donna (anzi «in gonnella», come si diceva negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, quando esordì in politica). Non è neppure un monumento alle idee del partito conservatore o al conservatorismo in sé e per sé (qualunque cosa sia). È un monumento a lei, a Margaret Thatcher, e all’acciaio nel quale il suo carattere era stato fuso, come racconta Elisabetta Rosaspina, inviata al «Corriere», in questa veloce e ammirata biografia della Lady di Ferro. Margaret Thatcher – per i nemici «that bloody woman», quella dannata donna, oppure «Maggie Poppins, portata dal vento freddo delle Midlands orientali» – non era salita al vertice dello stato in quanto donna (oggi aiuterebbe, ai tempi no). Né fu come donna che cambiò la Gran Bretagna (e un po’ anche il mondo) da così a così. Come la presidenza Obama, negli Stati Uniti, ha ampiamente dimostrato, non basta essere un nero alla Casa Bianca per lasciare un segno (non necessariamente positivo: un segno qualunque) nella storia. Allo stesso modo non bastò alla Thatcher essere una signora elegante e bene educata (benché d’«origini modeste», figlia com’era d’un «droghiere» anziché d’un «rentier« vittoriano, cosa che le veniva spesso fatto notare dai colleghi aristocratici e etoniani) per guidare con polso fermo e lingua tagliente l’Inghilterra. (A Downing Street, dopo di lei, ha preso domicilio un’altra donna, a sua volta leader del partito conservatore, ma dopo poche settimane ci siamo già dimenticati di Theresa May e anche del suo accenno di danza, sulle note degli Abba, al congresso dei tories). Non basta neppure essere un outsider con l’aspetto buffo per andare incontro a un destino da leader (a Boris Johnson c’è voluto un avversario impresentabile, cioè dichiaratamente antisemita e trotsko-sessantottesco come Jeremy Corbyn, per trionfare l’altro giorno alle elezioni). No, Margaret Thatcher, testa cotonata e tutto, era salita al vertice dello stato, dopo decenni di demagogia e di costosissime «socializzazioni», senza arruffianarsi nessuno, tanto meno le donne (come avrebbe potuto, visto e considerato che in politica così fan tutte) o, peggio ancora, le femministe, di cui lei disapprovava le rivendicazioni politiche sbilanciate a sinistra, «quote rosa» in testa. Margaret Thatcher non fu un semplice premier. Fu l’incarnazione d’una furia liberista. Non era semplicemente, come le fu rimproverato da chi trescava col Soviet supremo, un’«anticomunista invasata», convinta che Mosca parlasse e comprendesse una sola lingua, quella della forza (così la pensava anche Ronald Reagan, suo grande amico, e insieme non solo dimostrarono d’avere ragione ma provocarono anche la caduta del comunismo). Anticomunista, dunque attentissima alle mosse del grande nemico sulla scacchiera della politica internazionale, la Lady di Ferro era salita al vertice dello stato col mandato di rigenerare soprattutto la politica interna. In particolare, era lì per sottrarre l’economia del paese al controllo dei sindacati e dello stato (in parte, ma solo in parte, ci riuscì). Di suo, da grande statista, ci mise la decisione di domare la macchina dello stato in ogni sua manifestazione pratica. Se era un’invasata, era un’invasata della libertà: negli anni sessanta, prima della sua stagione da premier, contro la volontà bacchettona del suo partito, votò sia a favore dell’aborto sia «a favore della depenalizzazione dell’omosessualità». Spiegò, con formula efficace, che «la società non esiste», ma che esistono soltanto gl’individui e le infinite, tumultuose relazioni tra loro, meglio se responsabili. Fu durissima, almeno in politica. Mandò a spasso decine di migliaia d’impiegati pubblici e di minatori (lì per lì fu un «massacro sociale», come si dice adesso, ma col tempo si chiarì, più o meno, che era la cosa da fare, vantaggiosa per tutti, mezzemaniche e minatori compresi). Umiliò il regime argentino, alla cui testa (come in un film di Peckinpah) c’erano fior d’assassini e di criminali politici, impedendo che le isole Falklands, territorio inglese nell’Atlantico, diventassero le isole Malvinas, l’ennesima pampa argentina. Un’altra delle sue frasi preferite era «there is no alternative», non c’è alternativa. Morì al Ritz di Londra, dove viveva da tempo, nell’aprile del 2013. Quasi novantenne, era lontana dal potere da moltissimi anni, e non era più molto lucida. Denis Thatcher, suo marito, era mancato dieci anni prima, nel 2003 («la mente di Lady Thatcher respinse progressivamente l’idea della loro separazione definitiva, fino a escluderla dai suoi ricordi»). Una volta, all’inevitabile domanda su chi portava i pantaloni in famiglia, Denis Thatcher aveva risposto: «Io, naturalmente! E li lavo e li stiro, anche!» Era anche lui un uomo a suo modo eccezionale: la Regina Elisabetta, quando la Lady di Ferro lasciò Downing Street, nominò lui baronetto e lei baronessa. Se ne era andato, nel frattempo, l’amico Ronnie Reagan, come lei liberista furioso, come lei «anticomunista invasato». Anche loro due, Ronnie e Maggie, erano in qualche modo una coppia felice. Nessuno può negare che «il Fred Astaire della Casa Bianca e la Ginger Rogers di Downing Street abbiano coronato il loro sogno di pilotare l’Occidente secondo armoniose convinzioni liberiste».
Diego Gabutti |
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