Giorgio Bassani, un gigante della letteratura italiana del Novecento Analisi di Massimo Raffaeli
Testata: Il Venerdì di Repubblica Data: 13 dicembre 2019 Pagina: 114 Autore: Massimo Raffaeli Titolo: «Bassani, la storia oltre il giardino»
Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 13/12/2019, a pag. 114, con il titolo "Bassani, la storia oltre il giardino" il commento di Massimo Raffaeli.
Giorgio Bassani
IL NOVECENTO letterario ha canonizzato l'intervista, un genere a lungo ritenuto strumentale o comunque inferiore sia ai "colloqui" ancora in voga nell'Ottocento (celeberrimi quelli fra Goethe ed Eckermann o da noi fra Manzoni e Tommaseo) sia ai soliloqui para-giornalistici, in pieno Novecento, utili ad innalzare o a ripulire per esempio i monumenti di un Louis-Ferdinand Céline o di Thomas Bernhard. Per parte sua, uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, Giorgio Bassani, accettava obtorto collo di farsi intervistare per il carattere ritroso, spinoso, talora reticente, ma soprattutto perla concezione aristocratica della letteratura ereditata dai maestri Benedetto Croce e Roberto Longhi. Eppure le cinquantuno Interviste 1955-1993 scelte e impeccabilmente curate per l'editore Feltrinelli da Beatrice Pecchiari e Domenico Scarpa, con una partecipe nota di Paola Bassani, sono oggi di vera utilità ai lettori per almeno due buoni motivi. Intanto, Bassani non è stato affatto un autore precoce (a parte alcune plaquettes anteguerra, l'esordio con le Cinque storie ferraresi data 1956, quando lo scrittore ha quarant'anni) né si conoscono dettagliatamente i fatti del suo lungo decisivo apprendistato, prima di cospiratore antifascista e resistente in Giustizia e Libertà, poi di cineasta e sceneggiatore, quindi di redattore (Paragone, Botteghe Oscure) e di impresario editoriale (basterebbe menzionare, nei pieni anni Cinquanta, la "Biblioteca di letteratura” diretta proprio per Feltrinelli). Così come si tende a sfuocare, o a dare per scontata, la presenza di compagni di via che si chiamano fra gli altri Carlo Cassola, Mario Soldati, Pier Paolo Pasolini o, suoi sparring partner quotidiani, i critici Niccolò Gallo e Cesare Garboli, a proposito dei quali, in un'intervista del 1968, egli parla di «società strettissima con loro e di rapporto quasi di tipo religioso».
Il capolavoro di Giorgio Bassani (Einaudi ed.)
In secondo luogo, il grande successo di pubblico, specie di Il giardino dei Finzi-Contini ('62), ha ostacolato la ricezione critica di Bassani perché lo si è a lungo ritenuto un autore elegiaco, come un emulo ritardatario e provinciale di Proust, fino al linciaggio vero e proprio, con l'epiteto di Liala, da parte della neoavanguardia. Nelle interviste Bassani risponde a tono, ritorce in più di una occasione lo stereotipo coniato per liquidarlo mentre coglie, da buon storicista, il nesso che lega il formalismo e l'impassibilità mortuaria di certe partiture del Nouveau Roman o del Gruppo 63 alla «dittatura del grande capitale industriale e al moderno qualunquismo neocapitalista e neopositivista». Bassani non smette mai di essere un grande, lucidissimo intellettuale, un nemico mortale della immediatezza espressiva (la sua pagina è severa, rastremata, governata da un lentissimo metabolismo) così come diffida di qualunque smargina tura sentimentale. Altro che elegia o nostalgia. Infatti Scarpa nella introduzione parla di coincidenza fra il temperamento e l'impostazione teorica di «uno scrittore che per istinto ha un rapporto riflesso con la realtà, indiretto, meditato, filtrato». Dovrebbe dunque essere chiaro in via definitiva che non è affatto la soggettività della Memoria ma la obiettività della Storia il referente di un autore la cui stella fissa non è, per l'appunto, Marcel Proust ma semmai Thomas Mann o il Manzoni già teorico dei componimenti misti di Storia e Invenzione. Purtroppo si tende a rimuovere o a ignorare che Bassani non tratta direttamente della Shoah ma del regime che in Italia la prepara, il fascismo. Di continuo riformulata, con spasimo e tensione, la pagina di Bassani chiede di rispondere a una domanda molto imbarazzante: perché anche la borghesia ebraica è stata integralmente fascista fino al 1938? Perché gli ebrei italiani hanno tanto a lungo creduto in Benito Mussolini, specialmente a Ferrara, la città del podestà Renzo Ravenna, un ebreo, amico intimo di Balbo? Bassani dirà che, fra il '35 e il '36, è la sua scelta di antifascista ad averlo di colpo allontanato dalla classe sociale e dall'ethos d'origine, da suo padre e da sua madre: nel bellissimo dialogo con lo scrittore Aldo Rosselli, nel '72, conclude infatti lapidariamente con un Io voglio capire che vale una divisa etica. Ma la sgradevole domanda di Bassani è tuttora inevasa, estranea al senso comune dei lettori, se è vero che in Italia non solo si continuano a confondere storia e memoria ma si parla addirittura di memoria condivisa", come se le vittime dei fascisti potessero mai riconciliarsi con i propri carnefici: "conciliazione nazionale", non va dimenticato, a suo tempo era lo slogan prediletto da Giorgio Almirante. Qui non molti ricordano che Bassani è stato anche un poeta (e ad un volume complessivo dei versi sta lavorando da par suo Anna Dolfi), pochi ne conoscono il capolavoro intitolato Gli ex fascistoni di Ferrara. Primi anni settanta, lo scrittore, tornato dopo molti anni nella sua città, va a sedersi da Folchini, una pasticceria del centro storico, e li ritrova l'eterno presepe provinciale, i figuranti e i notabili, le solite facce, i vecchi compagni di liceo che nel '38 fingevano per strada di non riconoscerlo mentre ora deferenti si avvicinano con un sorriso di ammiccamento e di viscida condiscendenza. Dicono e non dicono, però è come se più o meno gli urlassero: «Ma su, è passato tanto tempo, in fondo dovresti pure ringraziarci, se no che cosa avresti scritto, e poi non è successo niente, in fondo siamo dei tuoi mezzi cugini, in fondo noi siamo uguali». Detta ora per allora, impaginata nella forma di una lapide, la risposta del poeta non potrebbe essere più semplice, più netta, e ancora la si legge come un necessario antidoto al trasformismo e al cosiddetto revisionismo. La clausola della poesia vale infatti un testamento: «Corrazziali? Voi quoque? Dei quasi/ mezzi cugini? No piano/ Come cazzo si/ fa?/ Prima/ cari/ moriamo».
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