Perché una campagna efferata contro il premio Nobel Peter Handke? Commento di Roberto Giardina
Testata: Italia Oggi Data: 12 dicembre 2019 Pagina: 13 Autore: Roberto Giardina Titolo: «Handke, vittima predestinata»
Riprendiamo da ITALIA OGGI del 12/12/2019, a pag.13, con il titolo "Handke, vittima predestinata" il commento di Roberto Giardina.
Roberto Giardina
Peter Handke
Handke ha ricevuto il Nobel per la letteratura dalle mani del re di Svezia, nonostante insulti, critiche, invocazioni ad annullare il premio per un ignobile scrittore che ha osato difendere il boia Milosevic e ha giustificato il massacro a Srebenica. Da oggi si parlerà d'altro, ma Handke rimarrà per molti, per troppi, un nazista e un razzista. Il tema ora è un altro: il sistema d'informazione che in nome del politically correct, o del me too che in questo caso non c'entra, può condannare chiunque senza prove, e senza possibilità di difesa. Che cosa ha detto e scritto veramente l'austriaco Handke, 77 anni? È colpevole di esprimersi in tedesco, e il suo pensiero è lost in translation, perduto o manipolato nella traduzione, sempre in inglese, ripresa da noi e altrove dai media britannici e americani quasi mai attendibili quando si occupano d'Europa. E colpa più grave, vive isolato, come giustamente desidera, e ignora tutto delle leggi del web. «Che cosa è una shitstorm?» ha chiesto alla vigilia del premio, cioè della valanga d'odio che gli era rovesciata addosso. E, dimenticavo, Handke detesta i giornalisti, evita di dare interviste a chiunque. Ha ragione, a giudicare da come è stato trattato. Non può accettare il pensiero binario, quello dei computer, usato dai media: sì o no, ja o nein. Vanno perdute le sfumature, quelle che dovrebbero contare. Handke è stato volutamente travisato come, se mi è consentito il paragone, Papa Ratzinger dopo il discorso a Ratisbona sull'Islam. Parlò da professore, da storico, e lo accusarono di essere un razzista. Handke ha concesso una lunga intervista al settimanale Die Zeit, di cui si fida. «Il mio giudizio sulla Serbia è da scrittore, non è un'opinione politica», è stata la sintesi in traduzione. Avrebbe torto. Si tornerebbe alla vecchia questione se un artista è superiore, se va separato il giudizio sulle opere da quello morale sull'uomo. Dipende: è intollerabile quello che scrisse Céline, ma possiamo bruciare i capolavori di Caravaggio, perché l'uomo, Michelangelo Merisi, era un assassino? O distruggere i quadri di Gauguin, perché oggi verrebbe condannato come pedofilo? Ti piace Handke? mi chiedono brutalmente. Dipende, non è yes or no. Ha scritto libri di una noia mortale, e romanzi che non dimentico, come La paura del portiere prima del calcio di rigore, da cui Wim Wenders trasse il suo primo film. E Il cielo sopra Berlino fu scritto da Handke, e, guarda caso, piacque a tutti tranne che agli americani: Peter Falk? Un angelo? Che follia. Handke non sostiene che da scrittore può dire quel che vuole. Ha spiegato che la sua posizione è emotiva, pensa alla sua Serbia con nostalgia, anche se ha quasi sempre vissuto altrove. Proprio per questo, ha radici confuse. E nato in Carinzia, la madre Maria che si uccise nel '71, era slovena, il padre un soldato tedesco, la nonna e gli zii serbi, Peter visse da bambino nella Berlino occupata dai sovietici. Andò ai funerali di Milosevic, ricorda, ma era statu scelto da Time come l'uomo dell'anno, e due anni dopo divenne «il nuovo Hitler», perché gli americani volevano mettere piede nei Balcani. Handke sostiene che la Serbia non fu il «paese aggressore» nei Balcani, non giustifica gli ottomila musulmani uccisi a Srebrenica innanzi ai caschi blu dell'Onu che non intervennero. Al vertice di Rambouillet (1998) si decise di intervenire in difesa del Kosovo ma, mi raccontò Silvio Fagiolo (scomparso nel 2011) quando era ambasciatore a Berlino, e partecipò ai lavori, che Belgrado era disposta a ogni concessione per evitare la guerra, «ma Madeleine Albright, ministro degli esteri Usa, volle il conflitto a tutti i costi». Quando chiese che le truppe dell'Onu entrassero in Serbia, Belgrado dovette dire di no. «Gli americani non vollero ascoltare», ha ricordato il professore Pedrag Simic, consigliere della delegazione serba a Rambouillet. Il ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer fu fisicamente aggredito al congresso dei verdi a Bielefeld (maggio '99) contrari alla guerra. Lo colpirono e gli lesero un timpano, ma Joschka, solo contro 4 mila, prevalse. Forse era in buona fede, ma voleva prendere il posto di Kofi Annan all'Onu, e aveva bisogno dell'appoggio degli Usa. Oggi è socio della signora Albright in una società di consulenza internazionale. La guerra non sarebbe stata possibile senza la Germania, disse Egon Bahr, che fu consulente di Willy Brandt per la Ostpolitik. E il giudizio fu condiviso da Henry Kissinger. Bombardammo Belgrado per convincere i serbi a ribellarsi contro Milosevic, ma le bombe sui civili non servono, basta ricordare le distruzioni di Amburgo o di Dresda. Colpimmo i ponti sul Danubio, si bloccò la navigazione fluviale dal Mar Nero al Mare del Nord. Come se l'Europa fosse stata colpita da infarto. Handke può piacere o no, ma da scrittore ci avvisa che la storia non ha una verità al di là d'ogni dubbio. E con coraggio lo ha fatto con grave rischio, sfidando il pensiero dominante.
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