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La Repubblica Rassegna Stampa
10.12.2019 Le serie israeliane diffuse in tutto il mondo: da Fauda a The Spy, una serie di successi straordinari
Analisi di Enrico Deaglio

Testata: La Repubblica
Data: 10 dicembre 2019
Pagina: 34
Autore: Enrico Deaglio
Titolo: «La storia di Israele è fatta in serie»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/12/2019, a pag. 34, l'analisi di Enrico Deaglio dal titolo "La storia di Israele è fatta in serie".

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Enrico Deaglio

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Mettiamola così: guardare le serie televisive costituisce oggi non solo uno dei migliori modi, per un'audience sofisticata, di passare il tempo libero, ma anche il miglior modo per immergersi nel presente, reale, immaginario, distopico o futuribile dal salotto di casa o dallo schermo di un telefonino su un treno di pendolari. Veri romanzi del nostro nuovo secolo, le serie sono allo stesso tempo globali e nazionali, e ognuno vende la propria eccellenza e la propria nostalgia: gli americani il cinismo del potere politico, i latinos la saga dei narcos, gli inglesi quella della casa reale; gli italiani si difendono con gli storici cavalli di battaglia: Vaticano e mafia/camorra. In attesa dello sbarco cinese, ecco però una novità: la maestosa avanzata delle serie tv su Israele, che dilagano un po' su tutte le piattaforme, da Sky, a Netflix, ad Amazon Prime, da Fox a Hbo, ad Apple TV. Ingredienti: Mossad, Shin Bet, guerre passate e future e vintage folklorico. Il successo è giunto inaspettato, perché Israele è un paese piccolo la cui cinematografia, pur di grande qualità, era rimasta pur sempre di nicchia e restia a cimentarsi con le grandi produzioni. Senza contare che Israele è oggetto, da quando è nata, di una profonda divisione di sentimenti. Quando si parla di questo piccolo Stato, infatti, come non succede per nessun altro Stato al mondo, si contesta addirittura il suo diritto ad esistere e il movimento politico che lo ha generato, il "sionismo", viene considerato uno dei tanti esempi della millenaria perfidia complottistica ebraica, e oggi sappiamo quanto questo binomio sia molto popolare. Israele, poi, è in guerra dalla sua nascita. Questo quadro generale forse spiega perché le narrazioni televisive hanno molto successo: si osserva in salotto un mondo che forse domani non ci sarà più, e ci si stupisce che quel mondo abbia comunque intenzione di vendere cara la pelle. Ed ecco quello che offre il mercato, che ha tanto successo sulle piattaforme internazionali.

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Sul podio, The spy, storia della mitica spia di Israele, Eli Cohen, che riuscì ad essere nominato vice ministro della difesa a Damasco, ma poi fu scoperto ed ucciso al termine di un barbarico processo pubblico. Sono due puntate, formidabili per la ricostruzione storica e per l'interpretazione di Sacha Baron Cohen (sì, proprio l'attore comico di Borat), qui nella parte di un ebreo nato in Egitto, arrivato povero in Israele, patriota in una missione che sa essere suicida, sacrificato — abbastanza cinicamente, suvvia — dal governo che potrebbe ritirarlo, ma lo lascia sul campo per avere le ultime informazioni necessarie che permetteranno ad Israele di vincere la guerra dei Sei Giorni. Poi c'è Fauda (Caos, in arabo), successo internazionale arrivato alla terza stagione, in cui si narrano le avventure di un'unità speciale dello Shin Bet, il servizio segreto interno, alla caccia dei terroristi di Hamas. Ma senza troppa propaganda. Anzi, Israele gioca sporco, molto sporco e non è per niente simpatica. Parlato in ebraico e in arabo, Fauda schiera oggi una dozzina di attori, diventati eroi nazionali. Sullo stesso filone (e spesso con gli stessi attori: Israele è un paese piccolo), False Flag e Dove volano gli eroi, dove si mischiano insieme l'assurdità della guerra, i traumi infiniti che provoca, e un patriottismo che alla fine vince; The green prince, con il figlio di un capo di Hamas che diventa spia per Israele. In arrivo, Teheran, in cui l'eroina del Mossad, ebrea nata in Iran, cerca di far saltare la centrale nucleare degli ayatollah; scoperta, riscopre le sue origini e una certa fratellanza. Messaggio: forse la guerra inevitabile si può ancora evitare. E poi, La tamburina, tratto dal famoso romanzo di John Le Carré, sul terrorismo palestinese degli anni Settanta. Esiste un comune denominatore in tutta questa produzione? Se sì, è in un "patriottismo critico", che ricorda la filmografia americana del post Vietnam: i grandi film che raccontavano: sì, abbiamo fatto cose crudeli, ma siamo umani: conosceteci meglio. In Israele, l'attuale filone ha un capostipite. Nel 2013 il regista Dror Moreh riuscì in un'impresa senza precedenti; mise di fronte ad una telecamera sei vecchietti, ognuno dei quali era stato il capo del venerato servizio di sicurezza Shin Bet negli ultimi quarant'anni. I vecchietti raccontarono tutto. Gli attentati e le guerre che avevano sventato, ma anche le torture che avevano commissionato, gli sbagli madornali che avevano fatto, il cinismo delle la ro operazioni militari, la cospirazione politica che aveva impedito di evitare l'assassinio del primo ministro Rabin, concludendo che, per Israele, qualsiasi speranza di difendersi solo con la repressione, l'occupazione militare, lo spionaggio, era vana. Bisogna fare il contrario, dissero: fare la pace. Uno di loro, Avraham Shalom, disse semplicemente: «la brutale occupazione dei territori non è dissimile da quella nazista in Europa»; un altro, Yaakov Peri, sorridendo concluse: «in questo mestiere, quando vai in pensione, diventi un po' di sinistra». Il regista concluse dicendo che si era fatto la convinzione che il peggior nemico di Israele fosse il premier Benjamin Netanyahu. Questa vena antigovernativa è continuata. In una delle ultime serie della tv israeliana, Ow- boys si narra della terribile vendetta compiuta da un gruppo di coloni contro i loro nemici palestinesi. Netanyahu ha cercato di vietarla e l'ha addirittura definita "antisemita". Ultimo, e tra tutti il più sorprendente, il successo internazionale di Shtisel (in ebraico, sottotitolato in inglese), che si avvia alla terza stagione su Netflix. Siamo a Geula, quartiere povero adiacente al più noto Mea Sharim, nel cuore degli ebrei ultraortodossi di Gerusalemme, dove il tempo si è fermato da alcuni secoli. Non c'è guerra, non c'è Hamas, non c'è Mossad, non c'è neanche Israele. Tutti sono vestiti di pesante panno nero e portano pesantissimi cappelli neri in ogni stagione; gli uomini studiano la Bibbia, le donne fanno cinque lavori per permettere a figlie mariti di continuare a farlo, la comunità non paga le tasse, non presta servizio militare ed elegge decisivi deputati alla Knesset Un mondo separato, ostico in cui veniamo a sapere che il vecchio Shulem Shtisel, appena vedovo, è stato licenziato dal collegio rabbinico, suo figlio Akiva (giovane talento della pittura, oltre che fascinoso ragazzo) vuole sposare una bellissima vedova, ma le consuetudini lo vietano. Sua sorella Gitti ha un marito poco di buono, Lippa, e la loro figlia Ruchami, ribelle, ha sposato segretamente un ragazzino votato al misticismo. Tutti si arrabattano, un cugino suona in un complesso rock approvato dal rabbinato, la nonna muore in un ospizio davanti al mare di Jaffa. Insomma, sembra di stare in una normale famiglia e lo spettatore si appassiona alle loro storie, fa il tifo perché l'amore trionfi e perché quel piccolo mondo possa continuare ad esistere. Esiste un filo che unisce questi romanzi televisivi israeliani e spiega il loro successo? Forse sì: la consapevolezza che le storie narrate fanno parte di una grande sinfonia, una naturale simpatia per i "guardiani", un notevole senso dell'umorismo riguardo al passato e al futuro; lo stesso che coniò lo slogan, nel 1967, all'inizio della breve guerra in cui il piccolo Paese rischiò di essere cancellato dalla terra: «Visitate Israele e le sue piramidi». Con un lungo racconto in prima persona Roberto Saviano, sulla copertina di Robinson in edicola tutta la settimana a 50 centesimi, ripercorre la sua giornata in piazza con le Sardine e ci spiega cosa ha capito di questo "popolo" senza leader e senza simboli, che ha scelto solo il nome di un pesce. Ma tra le novità presenti sul nostro supplemento culturale da non perdere è sicuramente la "visita guidata", che ci propone Valeria Parrella, alla scoperta di tutti i capolavori della pittura in cui è raffigurato il soggetto di San Giorgio e il drago, simbolo da sempre del bene che trionfa sul male: dall'interpretazione che ne dà Raffaello (al Louvre di Parigi) a quella di Andrea Mantegna (alle Gallerie dell'Accademia a Venezia), passando per il dipinto di Paolo Uccello (conservato alla National Gallery di Londra) o per l'affresco di Anello Falcone nella chiesa di San Giorgio maggiore a Napoli. La storia dell'arte è piena di percorsi possibili non necessariamente legati a una mostra: d'ora in poi Robinson ci dà la possibilità di scoprirli. E poi, come sempre, non mancano le recensioni dei libri in uscita e le classifiche di quelli più letti, compresa la nostra personale top ten, le rubriche, i fumetti e gli appuntamenti teatrali più importanti, mentre per lo Straparlando di questa settimana Antonio Gnoli ha intervistato Claudio Magris. Ma soprattutto non dimenticate di scriverci a robinson@repubblica.it.

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