Gli ultimi testimoni e il futuro della Memoria: addio a Piero Terracina Commenti di Elena Loewenthal, Liliana Segre
Testata: La Stampa Data: 09 dicembre 2019 Pagina: 1 Autore: Elena Loewenthal - Liliana Segre Titolo: «Piero Terracina, addio al testimone della memoria di Auschwitz - Il rischio di scordare la Shoah»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/12/2019 a pag.1, con il titolo "Piero Terracina, addio al testimone della memoria di Auschwitz", il commento di Elena Loewenthal; con il titolo "Il rischio di scordare la Shoah", il commento di Liliana Segre.
Ecco gli articoli:
Piero Terracina
Elena Loewenthal: "Piero Terracina, addio al testimone della memoria di Auschwitz"
Elena Loewenthal
Nel mondo ebraico quando qualcuno non c'è più, evocandone il nome si usa sempre la formula zikhronò leberakhah, che significa «il suo ricordo sia di benedizione». Che questo triste auspicio sia davvero tale per la memoria di Piero Terracina, nato a Roma il 12 novembre del 1928 e mancato ieri nella sua città. Che il suo ricordo sia per tutti noi una benedizione di memoria e la consapevolezza di quel che è stato. Piero Terracina era scampato con tutta la famiglia al terribile rastrellamento del ghetto, il 16 ottobre del 1943. Si erano nascosti in una cantina, e avevano vissuto in clandestinità fino al 7 aprile dell'anno successivo, la sera della Pasqua ebraica, quando un delatore li tradì. Padre, madre, fratelli, sorella, zio e nonno furono arrestati insieme a Piero. Il percorso di morte era sempre lo stesso: prima da Regina Coeli a Fossoli. «I prigionieri non lavoravano», raccontava, «ma imparai come dovevo morire: vidi un ufficiale sparare un colpo in testa a un deportato che conoscevo. Fu la prima morte che vidi nella mia vita». Come quel personaggio femminile in un racconto di Amos Oz che racconta che quando le torna in mente la madre morta laggiù vuole soltanto scappare dal mondo perché sa che non esiste altra alternativa che fra una morte e l'altra. Piero e la sua famiglia rimangono a Fossoli un mese, il 17 maggio vengono caricati su un vagone piombato e deportati ad Auschwitz. Sono in sessantaquattro, nel vagone. «I lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, e sarebbe bastato uno sguardo di pietà». Le porte del vagone non vengono mai aperte. Mai per tutto il viaggio. All'arrivo ad Auschwitz, cani, bastoni, botte, selezioni. Forse sua madre capisce: «Mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse: andate». Quando esce dalla «sauna»— spogliato, rasato, tatuato — Piero chiede a un compagno dove sono i suoi genitori, e lui gli indica il fumo che sale dalla ciminiera dei forni crematori. «Sono già usciti di lì» risponde. Il 27 gennaio del 1945 si aprono i cancelli di Auschwitz. Piero Terracina pesa 38 kg, è solo al mondo. Gli ci vorranno anni per riprendersi fisicamente, per riprendere ad avere un poco di fiducia nella vita. Torna a Roma, diventa dirigente d'azienda. Comincia a testimoniare molto tempo dopo il suo ritorno, negli anni Ottanta. Lo fa e sempre lo farà con pacatezza e lucidità. Si fa ascoltare nelle scuole, in istituzioni pubbliche private, nei viaggi della memoria ad Auschwitz, in televisione. Senza mai alzare la voce. Raccontando sul filo di un ricordo nitido, come se tutto fosse appena successo. «Piero Terracina ha rappresentato il coraggio di voler ricordare, superando il dolore della sua famiglia sterminata e di quanto visto e subìto nell'inferno di Auschwitz, affinché tutti conoscessero l'orrore dei campi di sterminio nazisti. Oggi piangiamo un grande uomo e il nostro dolore dovrà trasformarsi in forza di volontà per non permettere ai negazionisti di far risorgere l'odio antisemita» ha detto Ruth Dureghello, Presidente della Comunità Ebraica romana. Ad Auschwitz Pietro aveva fatto amicizia con Sami Modiano, di due anni più giovane. Entrambi sono diventati voci necessarie, battaglie viventi contro l'incubo che rubava notti insonnia Primo Levi, ancora decenni dopo: quello di raccontare e non essere creduti. Oggigiorno sembra che quell'incubo talvolta si avveri, prenda corpo nelle urla sui social network, in nostalgie scandalose e pericolose approssimazioni storiche. Come se non fosse successo quello che è successo. Piero Terracina era rimasto fra gli ultimi testimoni italiani della Shoah. Chissà come faremo, d'ora in poi, senza la sua voce. Forse, per onorare la memoria e farne benedizione, si può cominciare riflettendo sullo slancio di umana generosità che ha significato raccontare, per lui e gli altri testimoni. Su quanto deve essere stato doloroso, difficile, terribile, evocare giorno dopo giorno quel passato, per consegnarlo alle generazioni successive. Che sacrificio dev'essere stato, ogni volta, tornare laggiù, per scacciar via lo spettro che rubava le notti a Primo Levi e con voce pacata, lucida, vera, dire a tutti noi che ascoltavamo e continueremo ad ascoltare: «Questo è stato».
Liliana Segre: "Il rischio di scordare la Shoah"
Liliana Segre in Senato
La morte di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz come me, è stata la prima notizia che mi è stata comunicata ieri mattina appena sveglia, ed è stato come se si sgretolasse un altro pezzo della nostra storia. Perdonerete se sono così pessimista, mi spiace soprattutto per i giovani che mi scrivono lettere meravigliose e per tutte le persone dolcissime che mi applaudono o mi fermano per strada, ma io credo che si coltivi troppo poco la memoria e che, con la nostra scomparsa, tutto finirà. Senza Piero, io oggi mi sento più sola. Ai tempi della nostra deportazione e io e Piero non ci conoscevamo, lui era di Roma, io di Milano e i campi di sterminio erano divisi tra uomini e donne, impossibile incrociarsi. Ci siamo incontrati solo dopo tanti anni, entrambi sulla stessa barricata della testimonianza. Cosi abbiamo iniziato a condividere le assemblee con gli studenti, i convegni ai memoriali, scoprendoci molto affettuosamente vicini. Lui purtroppo non ha avuto come me il conforto nella vita di una famiglia che gli trasmettesse lo stesso calore umano che ho avuto io, ma è stato circondato fino all'ultimo secondo da amici e persone che gli volevano bene, perché Piero era un uomo dolcissimo, dallo sguardo mansueto e sereno. Tutta la sua persona ispirava una calda simpatia, impossibile non volergli bene. Così, quando mi hanno detto che era scomparso, un'ondata di tristezza mi ha pervaso perché mano a mano che i sopravvissuti se ne vanno, per chi resta è sempre più difficile. Vedete, io penso che quando saremo morti tutti, intendo sia noi vittime che i nostri carnefici, tutto ció che è stato rischia di andare perduto. Parlo anche dei carnefici perché so che qualcuno di loro è ancora vivo e ha scritto memorie oscene - uno dei questi libri s'intitola "Bei tempi" e potete ben immaginare a che razza di tempi si riferisse - ma paradossali visto che alla fine confermano ció che i negazionisti, appunto, negano. Ciò nonostante, quando non ci saremo più, nel giro di pochi anni i fatti di quella tragedia del Novecento che fu la Shoah, appariranno sempre più lontani, si ridurranno prima a un capitolo sui libri di storia, poi a una riga, infine neppure quello. Lo so, da me forse ci si aspetterebbe una parola di conforto, ma io, con quello che accade in questi anni dopo tutto il tempo che è passato, non riesco a essere ottimista. Si dice che chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla, io preferisco usare le parole di Primo Levi: "Comprendere è impossibile, ma conoscere è necessario". E la conoscenza è l'unica luce che ci pub dare speranza in questo mondo di ignoranza sempre più diffusa.
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