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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
30.11.2019 Polanski, Dreyfus e i suoi nemici
Analisi di Bernard-Henri Lévy, Giulio Meotti

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Bernard-Henri Lévy - Giulio Meotti
Titolo: «Polanski fotografa l'essenza della Francia tra odio antisemita e battaglie civili - I nemici di Dreyfus»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/11/2019, a pag. 24 con il titolo "Polanski fotografa l'essenza della Francia tra odio antisemita e battaglie civili", il commento di Bernard-Henri Lévy; dal FOGLIO, a pag. II, con il titolo "I nemici di Dreyfus", il commento di Giulio Meotti.

A destra: la locandina del film

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Bernard-Henri Lévy: "Polanski fotografa l'essenza della Francia tra odio antisemita e battaglie civili"

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Bernard-Henri Lévy

E se si parlasse di Polanski? Ma davvero, di Polanski. Non del caso di stupro su una minore per cui è stato processato quarantadue anni fa e per il quale ha scontato una condanna a quarantasette giorni di carcere nel penitenziario di Chino, vicino a Los Angeles. Né di questo nuovo caso di cui la presunta vittima ha parlato nel momento in cui l'eventuale reato è prescritto da ventidue anni e non può più essere oggetto del contraddittorio senza il quale non esiste giustizia possibile (Roman Polanski, quindi, per questo crimine è presunto innocente). E ancora meno di questo eterno dibattito sul rapporto tra l'uomo e la sua opera, i cui termini sono stati posti poco più di un secolo fa nel suo «Contre Sainte-Beuve» da un certo Marcel Proust (delle due cose, l'una, stabilisce questo testo che, secondo me, non è per nulla invecchiato: o concediamo un minimo di credito all'ipotesi di un secondo ego, relativamente estraneo all'ego sociale dell'artista, e da cui nasce il suo lavoro - o possiamo bruciare Aragon, Celine, Brecht, Marx, il Marchese de Sade e, quindi, Polanski). No. Voglio parlare dell'altro Polanski, quello di «Rosemary's Baby», di «Per favore non mordermi sul collo!», di «Il pianista» e dell'«Uomo nell'ombra» e oggi del nuovo film, «L'ufficiale e la spia», dedicato al Caso Dreyfus e che ho visto di ritorno da un reportage. Se dovessi fare un'obiezione, riguarderebbe il trattamento del personaggio di Alfred Dreyfus stesso, sottotono, insipido, schiacciato dal suo destino, poco simpatico: come se il regista, assumendo il punto di vista di Picquart, prendesse per oro colato la leggenda, creata da Clemenceau («Picquart è un eroe, Dreyfus è una vittima»), da Blum (se Dreyfus non fosse stato Dreyfus, «sarebbe stato ugualmente dreyfusardo?») o da Peguy (Dreyfus, questo povero «abitante» della grande «Idea» dreyfusarda), di un antieroe Dreyfus, deludente, non all'altezza della sua causa. E così rimane il mio desiderio di un film ulteriore: il Dreyfus che dimostrando sangue freddo e un temperamento d'acciaio resiste sull'isola del Diavolo e accetta la grazia solo per potersi subito dopo battere, senza cedere nulla o lasciarsi andare, per la sua riabilitazione - e il Dreyfus, di cui non si parla affatto, che dopo, negli anni che seguirono l'Affare, ha partecipato alle lotte della nascente Lega per i diritti dell'uomo - lottando per un portuale francese ingiustamente condannato a morte; per il soldato Emile Rousset, ingiustamente processato da un consiglio di guerra in Algeria; o, ancora, per gli anarchici italoamericani Sacco e Vanzetti condannati alla sedia elettrica ... Ma, espressa questa riserva, è ammirevole l'affresco, in questo «L'ufficiale e la spia», di un apparato militare ripiegato sul suo errore giudiziario e che confida su falsi grossolani: gli antenati delle bufale ... Ammirevole la descrizione di una Francia che puzza di antisemitismo, rosa dal suo veleno come il colonnello Sandherr dalla sifilide e che urla il suo odio per gli ebrei, nei corridoi dei tribunali come sulla stampa, con un'isteria tranquilla e gelida: la Francia ammuffita, diceva Philippe Sollers; l'ideologia francese, mi sono detto ... Ammirevole e illuminante, è la scena in cui vediamo, a Parigi, un autodafè de «L'Aurore» in cui è appena apparso il «J'accuse ...!» di Emile Zola, così come un attacco a un negozio preso a sassate e imbrattato con la scritta omicida «Morte agli ebrei»: non siamo più nella Francia dal 1906, ma a Berlino, nel 1938, nel pieno della Notte dei cristalli - e non si potrebbe raccontare meglio l'onda d'urto dell'Affare, il modo in cui apre il ventesimo secolo, la sua dimensione trans-storica. Ammirevole è ancora, parlando come Peguy, la restituzione di un clima di guerra civile e intima in cui le famiglie si spezzano «come paglia», dove ci si separa da un fratello o da un amico come ci si «amputa un braccio» e dove ciascuno, a sinistra come a destra, tra i socialisti non meno che tra i nazionalisti, è in guerra contro se stesso. Ammirevole, ovviamente, il ritratto di Marie-Georges Picquart, il colonnello che, diventato capo del controspionaggio francese, fu il primo a capire che l'autore della famosa nota da cui nacque il caso non era Dreyfus ma Esterhazy. In che modo questo soldato, partendo da una certa idea dell'esercito, e dalla convinzione che un simile aborto di giustizia avrebbe macchiato il suo onore per sempre, finì per abbracciare la causa della verità e della giustizia? In che modo questo antisemita a pelle, come dicevano allora i maurrassiani, è giunto a questo incontro con Joseph Reinach, Mathieu Dreyfus, Emile Zola, in altre parole i sostenitori del «partito ebraico», che è il punto di svolta del film e fa di lui il primo informatore nella storia della Francia? E al culmine di quale travaglio interiore questo ufficiale, superbamente incarnato da Jean Dujardin, arriva, alla fine, durante il suo duello alla spada contro il burocrate criminale Henry, a questa simbolica riparazione dell'altra spada: quella del capitano degradato, che, nella panoramica iniziale del film, aveva visto, come tutti i suoi colleghi, andare in rovina senza farsi scrupoli? Questo è il vero nucleo del film. E tutto ciò, sì, è ammirevole. Emmanuel Levinas ha raccontato come ha deciso di venire a vivere in Francia il giorno in cui, dal profondo della sua nativa Lituania, ha capito che c'era, molto, molto lontano, uno strano paese che per metà urlava il suo odio per un piccolo capitano ebreo innocente, ma dove l'altra metà stava lavorando alla sua riabilitazione, come se si desse da fare per la propria salvezza. Bene, questo è ciò che mostra il film ed è per questo che è necessario, contro tutti i Sainte-Beuve, mollare tutto e correre a vederlo.
Traduzione di Carla Reschia

IL FOGLIO - Giulio Meotti: "I nemici di Dreyfus"

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Giulio Meotti

Una famosa vignetta, pubblicata sul Figaro del 14 febbraio 1898, mostra una famiglia a tavola che finisce per litigare selvaggiamente non appena iniziano a parlare dell'affaire Dreyfus. L'ufficiale d'artiglieria francese accusato di tradimento è stato oggetto di infiniti studi, che ne hanno esaminato l'impatto politico, sociale e storico. Adesso c'è anche il film di Roman Polanski, "L'ufficiale e la spia". L'affaire fu un grande campo di battaglia in cui si confrontavano due visioni del mondo, due prospettive culturali, due atteggiamenti verso il potere, due sistemi di valori che coinvolse anche tutto il pantheon della cultura francese del tempo. Il campo dei nemici di Dreyfus era molto più cospicuo. Lo guidava Charles Maurras. E' rimasta celebre la sua battuta al termine del processo che lo avrebbe condannato per collaborazionismo nel 1945: "E' la vendetta di Dreyfus!". Proprio dall'affaire sarebbe nata l'Action Française, il giornale di Maurras. E, con essa, poco alla volta, si sarebbe definita la destra francese nei suoi filoni controrivoluzionario, tradizionalista, orleanista e nazionalista. Il padre del sindacalismo rivoluzionario, Georges Sorel, dirà che Maurras rappresentava per la destra francese ciò che Karl Marx era stato per il socialismo. Come giornalista politico, saggista e poeta, scrivendo per più di sessant'anni, Maurras aveva raggiunto un vasto pubblico e un'enorme influenza. Charles Péguy, Marcel Proust e André Malraux ne avrebbero tutti elogiato il grande talento, che lo avrebbe portato sugli scranni dell'Académie française. Tra coloro che hanno riconosciuto il loro debito intellettuale nei confronti di Maurras vi sono anche insospettabili come Louis Althusser, Pierre Boutang, Jacques Lacan, Jacques Maritain e Gustave Thibon, e i romanzieri Georges Bernanos, Michel Déon, Jacques Laurent e Roger Nimier. Il presidente francese Georges Pompidou, il conservatore pragmatico degli anni Settanta, lodò Maurras come "profeta" del mondo moderno. T. S. Eliot, che lesse Maurras per anni, disse che lo scrittore francese lo aveva aiutato ad abbracciare il cristianesimo e che era "una sorta di Virgilio che ci condusse alle porte del tempio". Il caso Dreyfus fu una prima guerra ideologica francese. Fu l'emergere degli intellettuali come figure di riferimento. E fu la divisione della Francia in due, quella laica, rivoluzionaria, borghese e repubblicana da una parte, e quella tradizionalista, identitaria e nazionalista dall'altra. Non tutti gli scrittori nemici di Dreyfus credevano che egli avesse davvero tradito, ma videro in lui il simbolo della Francia che detestavano. Volevano la sua condanna perché auspicavano la morte della Repubblica parlamentare, "affarista", "blasfema", "chiacchierona", "imbelle". Gli antidreyfusardi si fecero portavoci dell'ideale antirazionalista, antintellettualista, antidemocratico, esclusivista e statalista a scapito dell'universalismo dei diritti umani, il "paese reale" contro il "paese legale", la nazione contro la Repubblica, il "trionfo della giustizia" contro "l'unità morale", i clericali contro gli anticlericali, i francesi de souche contro "i massoni, i protestanti e gli ebrei". Fu anche una guerra fra due giornali. Da una parte, L'Aurore, che il direttore Ernest Vaughan voleva "progressista, liberale e umanitario". Dall'altra, l'Action française, il foglio più bellicoso e reazionario che abbia mai agitato le acque della vita francese. I maurrasiani si richiamavano ai grandi pensatori della controrivoluzione De Maistre, Bonald, Burke. Volevano il sacrificio di Dreyfus per celebrare la loro vendetta contro i rivoluzionari che avevano decapitato il re e instaurato a Parigi la Repubblica "amorale degli scandali". Era la Francia rurale, antigiacobina, conservatrice delle piccole patrie provinciali e vandeane, unita nella comune devozione al re, che predicava la ragion di stato e adorava la patria come una divinità. E nonostante l'agnosticismo di Maurras, il movimento rivendica il cattolicesimo. Ma sarà ufficialmente condannato dalla chiesa. Antidreyfusardi come Maurice Barres, lo scrittore solitario ed aristocratico, il poeta della introspezione e delle fantasticherie taciturne, che attaccò gli "intellettuali" che, in nome della ragione e dell'universale, avrebbero disprezzato l'esercito, la nazione e il proprio "gruppo naturale", quello del "semplice francese". Emile Zola, con la sua generosa, feroce polemica a favore di Dreyfus negli anni della clamorosa querelle, si procurò la condanna a un anno di carcere, alla quale sfuggi esiliandosi in Inghilterra e tornando il giorno in cui venne finalmente riconosciuta l'innocenza dell'ufficiale ebreo, accusato d'aver trafugato dei documenti segreti e di averli passati allo stato maggiore tedesco. A favore di Dreyfus Zola scrisse e pubblicò sull'Aurore la famosissima lettera aperta al presidente Faure, dal titolo "J'accuse", diventata un luogo comune non soltanto letterario. Con Zola, pochissimi altri, come Marcel Proust. Contro Dreyfus si schierarono il vate Paul Claudel, il drammaturgo Francois Coppée, lo scrittore e accademico di Francia Jules Clartie, il romanziere cattolico Georges Bernanos, lo scrittore padre del decadentismo J.K. Huysmans, Jules Verne, il poeta Paul Valéry, e poi i grandi pittori del tempo, come Cezanne, Renoir e Degas. Mentre Barrés denuncia gli intellettuali dreyfusardi come "nudi, estranei, animali arrabbiati o in decomposizione", Valéry arrivò a donare del denaro alla vedova del colonnello Henry, che nel 1898 si suicidò quando si rese conto di aver falsificato i documenti usati per incriminare Dreyfus. In una lettera del 31 gennaio 1898, Valéry rimproverò ad André Gide di aver firmato la petizione per la revisione del verdetto Dreyfus e inveì contro gli "sciocchi o illuminati che parlano di giustizia e libertà". E per concludere: "Penso che ora dobbiamo sostenere il potere, perché è la nazione". Antidreyfusardo fu sempre Léon Daudet, condirettore dell'Action française e membro dell'Accademia Goncourt, sposato alla nipote di Victor Hugo, Janne. Autore di "A rebours", la Bibbia del decadentismo, che influenzò tutta una generazione, Huysmans nel 1898 parlò del caso Dreyfus con François Bournand, giornalista della Libre Parole. Il grande scrittore, ispiratore di Michel Houellebecq, rispose: "Sono un antisemita convinto: sono gli israeliti che hanno reso la Francia il paese triste agitato da basse passioni". Mentre Barrès indugiò sul "naso etnico" del capitano e Daudet lo descrisse come un "relitto del ghetto", Paul Claudel ruppe con molti dei suoi amici, tra cui Jules Renard, che era diventato un appassionato sostenitore di Zola e Dreyfus. Paul Claudel e Jules Renard si incontrarono un'ultima volta dopo il ritorno del primo dalla Cina nel 1900. Il loro incontro ebbe luogo nell'atelier di Camille Claudel. Su un tavolo, una copia della pubblicazione di destra La Libre Parole con il motto "la Francia ai francesi". Renard gli domanda: "E la tolleranza?". Claudel gli rispose: "Ci sono delle case per questa". Intendeva le case di prostituzione. Cezanne ruppe con Zola, suo amico e sostenitore, quando la maggior parte dei pittori impressionisti più noti erano anti-dreyfusardi. Quasi tutti si schierarono, pro o contro il capitano. Ma ci fu anche chi rimase alla finestra. E' il caso di Romain Rolland. Fin dall'inizio, il grande scrittore ha semplicemente rifiutato di schierarsi. Rimase "al di sopra della mischia" per la durata dell'affaire, in un misto di pacifismo e di pusillanimità. Il suo rifiuto di assumere una posizione pubblica su Dreyfus fu tanto più clamoroso considerando che la prima moglie di Rolland faceva parte della borghesia ebraica parigina. Ci fu chi, come il famoso poeta Charles Peguy, fu dreyfusardo della prima ora, prima di diventare un ardente nazionalista e spostarsi sempre più a destra. Nel 1914, Peguy si arruolò nell'esercito e fu tra i primi a morire nella grande guerra. Altro strano destino quello del principale nemico di Dreyfus, Charles Maurras. Nel 1940 lo scrittore e politico si schierò risolutamente a favore di Pétain e di Vichy: l'odio per la Germania si univa in lui all'odio per l'Inghilterra, e se Ribbentrop lo mise nella lista nera degli elementi pericolosi alla causa tedesca, la Resistenza ebbe ugualmente in lui uno suoi più risoluti nemici. Nel 1946 Maurras fu condannato all'ergastolo. L'età avanzata e le condizioni di salute mossero fin dal 1949 numerosi intellettuali, molti dreyfusardi, a chiedere una revisione del processo e la grazia. Questa gli fu concessa e Maurras venne ricoverato in una clinica di Tours, dove scomparve nel 1952. Fu la sua Isola del diavolo. Il grande scrittore Anatole France, figlio dell'Illuminismo settecentesco e del paganesimo alessandrino, borghese erudito, bibliofilo figlio di libraio, scettico, libero pensatore, epicureo, di cui era stato segretario proprio Maurras, ebbe l'onore di essere il solo dreyfusardo membro dell'Accademia e per questo fu malignamente ribattezzato "Anatole Prusse" (Dreyfus era accusato di complotto con i tedeschi). Non partecipò alle riunioni dell'accademia fondata dal cardinale Richelieu dal 1902 al 1916, per protestare contro il dilagante antisemitismo sotto la coupole e, come se non bastasse per trasmettere un segnale forte, Anatole France restituì anche la Legione d'Onore. Nella sua "Isola dei pinguini", France offrirà il resoconto più fedele dell'affaire sotto forma di una favola burlesque e del capro espiatorio. Ci fu, infine, un giornalista, in mezzo a questo osceno clamore antisemita, che capi quello che sarebbe successo in Europa. La Neue Freie Presse, il più autorevole quotidiano dell'impero austro-ungarico, nominò Theodor Herzl suo corrispondente da Parigi. Uomo di teatro, scrittore raffinato e rococò, Herzl a Parigi si trasformò in politologo. Aveva già sentito ardere il furore dell'antisemitismo quando Richard Wagner era morto a Venezia. Herzl assistette da Parigi come inviato alla cerimonia durante la quale Dreyfus fu degradato. Udì le urla degli antisemiti che reclamavano a gran voce la sua condanna a morte, "morte all'ebreo". Fu a questo punto, secondo gli storici, che lo scrittore ebreo assimilato decise che l'assimilazione ebraica non era più una teoria valida in Europa. Fu a questo punto, in pieno incubo antisemita, che decise di fondare il movimento sionista. Herzl pubblicherà "Der Judenstaat" (Lo stato ebraico). A oltre cento anni dall'affaire Dreyfus, l'imputato non è più soltanto l'ebreo, ma il suo stato, l'ebreo fra le nazioni.

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