Riprendiamo da LIBERO di oggi, 29/11/2019, a pag.13 con il titolo "L’Italia è diventata una fabbrica di terroristi", il commento di Andrea Morigi.
Andrea Morigi
Il jihadista della porta accanto lavora in un centro commerciale della periferia milanese e, col suo magro stipendio, riesce anche a finanziare l’Isis. Come Nadir Benchorfi, frequentatore del centro islamico di Busto Arsizio, che si era dato così tanto da fare al ristorante Kentucky Fried Chicken del Bicocca Village e in Germania da guadagnare abbastanza per diventare uno dei punti di riferimento per gli aspiranti foreign fighter che dall’Europa volevano raggiungere il Califfato. Invece di riciclare il denaro sporco, utilizzava fonti lecite per fornire sostegno ai suoi confratelli impegnati sul fronte. Con la tecnica del money dirtyng la pianificazione di attacchi o l’acquisto di armi lasciano poche tracce visibili. È uno scorcio del mondo sommerso del terrorismo islamico, analizzato dagli esperti della European Foundation for Democracyinun dossier: Comprendere la radicalizzazione jihadista - Il caso Italia, presentato ieri a Roma, presso la Biblioteca della Camera dei Deputati.
I PROFILI A livello internazionale, i canali più importanti rimangono quelli classici. La ricerca ritiene «possibile ipotizzare che dal Qatar siano partiti ingenti capitali per arricchire le casse terroristiche e ciò principalmente a causa della mancanza di adeguata legislazione contro il finanziamento alle strutture jihadiste. Non si tratterebbe, quindi, di un appoggio diretto del Qatar a favore delle organizzazioni terroristiche, ma l’insieme composto da un vuoto legislativo e da blandi controlli che hanno favorito l’invio di denaro a diversi gruppi islamisti di opposizione al regime siriano». E anche ai ribelli Houthi dello Yemen. L’Emirato, che anche in Italia ha investito parecchio denaro e coltiva numerosi interessi economico-finanziari, ha inondato di soldi centinaia di gruppi fondamentalisti islamici europei, in particolare quelli legati ai Fratelli Musulmani. Ma una sentenza penale che lo attesti non è agli atti. Perciò il tentativo di scrivere la storia attraverso le carte processuali è riduttivo perché considerare soltanto i documenti prodotti nei tribunali non offre un orizzonte completo. Ma dai faldoni giudiziari talvolta si può ricostruire un puzzle. In questo caso, l’immagine che si ricava da una cinquantina di profili di imputati per terrorismo internazionale è quella di una strategia di infiltrazione ben congegnata. I più pericolosi non sono coloro che progettano attacchi contro obiettivi sul territorio italiano. Del resto, da noi gli attentati sono stati pochi, innocui e compiuti da “lupi solitari”. Chi fa parte dell’organizzazione piuttosto se ne sta in silenzio, mimetizzato da commesso e da operaio, rinunciando anche a manifestare le proprie opinioni religiose. Sono veri e propri agenti segreti in campo nemico. Magari non tentano nemmeno più di reclutare combattenti, perché tanto vi sono già strutture operative con quel compito specifico. A ognuno la sua guerra santa. Certo, nella Penisola sono stati numerosi i volontari, talvolta anche famiglie intere, partiti per la Siria o per l’Iraq. Finché erano fuori dai confini, tutto sommato la loro minaccia non era più considerata una fonte di allarme nel Paese d’origine.
UNA NUOVA FASE Ora che il califfo Abu Bakr al Baghdadi è stato eliminato, il quadro cambia. Turchi e americani, che avevano catturato i miliziani di Daesh e finora se n’erano occupati, non vogliono più custodire i prigionieri stranieri nelle loro galere e li rimpatriano. Le conseguenze del loro ritorno vanno affrontate e gli esperti raccomandano di tentare la via della deradicalizzazione dei soggetti a rischio. Peccato che il nuovo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, si sia così convinta che l’importanza del fenomeno vada ridimensionata e che quindi non disponga degli strumenti culturali e politici per contrastarlo. Per questo un altro consiglio utile, che identifica «il contrasto all’immigrazione clandestina e l’integrazione socioeconomica dei rifugiati in Italia», come elementi «fondamentali per prevenire la radicalizzazione e l’estremismo violento di stampo jihadista», rischia di rimanere sulla carta. Ormai, si è affermata una tendenza al jihadismo autoctono: la maggior parte dei condannati sono nati in Italia e hanno ottenuto la cittadinanza: espellerli su due piedi non è possibile. In Danimarca hanno approvato una legge che lo consente, ma il quadro politico italiano ancora non lo prevede. Chissà fino a quando.
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