Il presidente americano Donald Trump si avvia ad avere ormai un migliaio di tweet ufficiali contro "le fake news" dei giornalisti nell'account personale. I colleghi russi critici del Cremlino si imbattono spesso in tragici destini, come Maksim Borodin, precipitato dal balcone di casa dopo aver svelato i piani segreti di Putin in Siria. Il caso del blogger saudita Jamal Khashoggi, fatto a pezzi per aver diffuso informazioni sgradite alla casa regnante, ha fatto il giro del mondo. In un recente discorso a Brown University,
https://nyti.ms/2XyqpZd, A.G. Sulzberger, editore del New York Times, ha citato intimidazioni, repressioni, violenze contro la libera informazione in Libia, Egitto, Cina, Ungheria, Venezuela, Filippine, Myanmar, Cameroon, Malawi, Messico, Israele, Burundi, Iran. La lista è lunga, ma il triste record del pugno di ferro contro i media tocca alla Turchia dell'uomo forte Recep Tayyip Erdogan: secondo un rapporto dell'International Press Institute (Ipi), sostenuto dall'Unione europea, sono ancora 120 i giornalisti professionisti detenuti dal regime, con migliaia ad affrontare lunghi processi per accuse gonfiate ad arte. Erdogan usa le leggi speciali seguite al controverso "golpe" 2016, per arrestare, e mettere poi alla sbarra, decine di migliaia di oppositori, con una purga di 150.000 funzionari licenziati dall'amministrazione pubblica. Come ogni leader autoritario, Erdogan si accanisce contro stampa e media. Ha fatto titolo il caso del giornalista e scrittore Ahmet Altan, in galera per tre anni con il collega Nazli Ilicak e poi condannato a dieci di carcere duro, quindi liberato e, solo una settimana dopo, ancora arrestato con l'accusa di "terrorismo". Altan, 69 anni, ha scritto in cella un romanzo amarissimo, "Non rivedrò il mondo", persuaso che "si uccidono gli scrittori, li si mette in galera, li si tortura, ma non li si elimina come insetti. Uno scrittore non ha solo il corpo, più lo colpisci, più lo rendi grande…Io spero di sopravvivere al potere politico turco di oggi…" (i libri di Altan, in italiano, Edizioni E/O). L'orgoglio di Altan, condiviso dalle dozzine di suoi fratelli e sorelle detenuti in Turchia è, dalla notte dei tempi, fonte del coraggio morale che oppone parola a forza bruta: la speranza che la luce della ragione prevalga sulle tenebre della violenza irrazionale. Ma questa battaglia, scorrete il rapporto Ipi per ricordarlo https://bit.ly/37qLfOw, non è mai vinta solo da un pugno di combattenti, serve loro il sostegno di ogni libera coscienza, in patria e, nel presente mondo globale, ovunque. Qui, purtroppo, come gli studenti patrioti di Hong Kong e i musulmani uiguri in Cina, i giornalisti turchi sembrano soli. Persuaso che Erdogan gli reggerà bordone in Medio Oriente, il presidente Trump gli lascia mano libera contro i curdi in Siria e non lo pressa dunque, come non pressa giunta egiziana o Cremlino, sulla libertà di stampa. L'Unione Europea fa quel che può, ma lo stile brutale anti-media ha fan anche nell'Ue, specie a Est. Gli anni dei social media, della disinformazione, delle grandi piattaforme occhiute sui profitti e distratte sulla libertà, del ritorno di populismo e nazionalismo, i due nemici storici della stampa, hanno, forse per la sorpresa di tanti, riscoperto come, silenziata la cultura del giornalismo professionale, critico e autorevole, la classe dominante degeneri presto in cricca senza scrupoli. La Turchia, nella Nato e alle porte dell'Europa, è dunque monito gravissimo: il premier Conte, il ministro Di Maio, la Federazione della Stampa, l'Ordine dei giornalisti, i cittadini di buona volontà, ricordino che la triste saga turca parla di noi e di oggi.