Redivivi e redimorti
Commento di Diego Gabutti
Novembre 1989: cade il Muro di Berlino
Avevano Matteo Renzi, che non sarà stato un’aquila ma che almeno era un leader moderato, senza scheletri maoisti nell’armadio. Avevano Renzi e, grazie a lui, una mezza speranza d’uscire (con trent’anni di ritardo, ma comunque uscire) dalle macerie del Muro di Berlino. Ed ecco che si ritrovano a cantare Bella ciao in Piazza Maggiore in compagnia dei militanti dei centri sociali che hanno appena preso d’assalto bancomat e auto posteggiate. A rappresentarli, in tutti i talk show, non c’è nemmeno D’Alema, che ancora sarebbe («diciamo») un redivivo, ma Achille Occhetto: un «redimorto», come dicevano i Ghostbuster dei ricercati fantasma sui loro bandi di ricerca. Potevano cercare voti «al centro», come fanno i partiti dabbene. No, loro cercano l’alleanza (o meglio la piatiscono, come «piagnoni» in preghiera) del Movimento 5 Stelle, nella convinzione che il partito delle mezze pippe sia l’alleato naturale del partito dei demagoghi (e lo è, indubitabilmente). Non una parola sensata sul destino dell’ILVA. In compenso «Ius soli», «Ius culturae» e magari anche l’«italoivorese» Aboubakar Soumahoro alla segreteria del partito democratico (nel caso Soumahoro non accettasse, si potrebbe dipingere di nero la faccia di Dario Franceschini e fargli cantare Mammy a imitazione d’Al Jolson nel Cantante di jazz, il primo film sonoro). Via il decreto sicurezza (di troppo non è il decreto, ma la sicurezza). Sono lo zimbello dei leghisti, che gli soffiano le poltrone regionali di sotto il sedere, e loro giù a terra, increduli, offesi, mentre frignano chiamando al soccorso Gigiotto Di Maio (e un po’ anche «le masse», oggi «sardine», come nel Sessantotto). Ogni mossa che fanno è sbagliata: l’antifascismo fasullo da salotto buono televisivo, Bandiera rossa, lo scippo dello scudo penale a Mittal, le ricette balorde per combattere l’evasione fiscale (equiparata allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come nei pamphlet oggi fuori corso degli Editori Riuniti). Sbagliando, e di brutto, si credono ancora in corsa, poveretti, nell’Olimpiade permanente delle grandi religioni, ed è per questo che insistono a colpire, col loro debole (sempre più debole, debolissimo) anatema, gli elettori «de destra», dimenticando che sono in larga maggioranza ex elettori «de sinistra» passati al nemico (cioè alla «dissidenza», come a Mosca e Leningrado negli anni sessanta e settanta). Si autodefiniscono «partito democratico». Ma non sono «democratici» all’americana, come piacerebbe a Walter Veltroni, e non sono nemmeno democratici «all’amerikana», come li scherniscono le frange estreme della piazza bolognese. Sono «democratici» – per tornare, o meglio per restare, al Muro di Berlino – com’era «democratica» la Repubblica Democratica Tedesca (paese in balia d’un dio geloso: il socialismo cannibale, che aveva sprangato tutte le porte del paradiso, in particolare le uscite d’emergenza). Anche i «dem» sono sempre lì, all’ombra del Muro, come topi in trappola. Eredi diretti, e persino figli prediletti, della peggiore catastrofe mai toccata all’umanità in millantamila anni di storia della specie, il comunismo internazionalista, gemello (di quarant’anni più longevo) del socialismo nazionale hitleriano, Zingaretti e gli altri boss democratici s’autopromuovono da tutti i possibili pulpiti come le supreme autorità morali del nostro tempo, anzi dell’intero Novecento. Ci vuole un bel coraggio, ma a loro non manca. Tutto quel che fanno o hanno fatto è a fin di bene. Ieri erano a fin di bene le carestie pilotate, i massacri, i campi di lavoro e di sterminio, i morti a milioni, il materialismo storico e dialettico, le invasioni di nazioni indifese da parte dell’Armata rossa. Era a fin di bene persino il Muro il Berlino. Oggi sono a fin di bene la questione morale e il compromesso storico, gli editoriali di Concita De Gregorio su Repubblica, l’alleanza indecente con le mezze pippe, Bella ciao cantata in coro con i centri sociali, il Conte 1 e 2, la caccia (più stile Cartoonia che stile Ghepeù) ai nemici del popolo, gli agguati a Giorgia Meloni di Lilli Gruber, i ridicoli libercoli marxsovranisti di Diego Fusaro. Della sinistra italiana, che un tempo esercitava la sua «egemonia» sulla cultura e guardava dall’alto in basso ogni altra ragion politica, non rimane più niente, a parte lo sguardo acquoso d’Achille Occhetto, l’obbedienza a un presidente del consiglio devoto contemporaneamente a Beppe Grillo e a Padre Pio (che nei santini in fondo un po’ si somigliano) e una successione d’incalcolabili disastri e devastazioni. Oggi o un altro giorno, perdano oppure conservino l’Emilia-Romagna, regga o tracolli il governo giallorosso, i dem non hanno scampo. Finiranno nello «zaino protonico», di lì nella «ghost-trap» degli acchiappafantasmi, e fine della storia: redimorti.
Diego Gabutti