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Diego Gabutti legge il Muro di Berlino di Roberto Giardina
Roberto Giardina, Il Muro di Berlino 1961-1989. Il racconto di un’epoca attraverso le storie dei grandi e piccoli protagonisti, Diarkos 2019, pp. 334, 18,00 euro.
Non era soltanto un muro, e neppure è scomparso del tutto dopo essere stato abbattuto, trent’anni fa, in un giorno di festa. Era il Muro, più maiuscolo della Grande Muraglia cinese, che pure è visibile dallo spazio come la cicatrice da rasoio sul volto di Scarface, il più pericoloso dei «malamente» hollywoodiani. Non divideva soltanto una parte del mondo da un’altra parte del mondo, come di solito fanno i muri. Né si limitava – cosa già abbastanza straordinaria – a spaccare in due una città come certi arredi urbani nei fumetti e nei film di fantascienza. Muro dei muri, il Muro di Berlino era più d’una divisione semplicemente geografica tra l’est e l’ovest.
Anche qui, infatti, l’ovest non era l’ovest ma l’Ovest e l’est non era l’est ma l’Est: punti cardinali maiuscoli, cresciuti a Weltanschauung, a dismisure del Novecento. Muro abissale, il Muro di Berlino separava il mondo reale dell’economia di mercato (i jukebox, le democrazie, Marilyn Monroe, la libertà di stampa e di parola) dal mondo infernale degli utopisti (i piani quinquennali, il gulag, Pol Pot, le Guardie rosse cinesi, Il placido Don, gli stakanovisti, le statue di Lenin e di Stalin). È la storia di questo Muro elevato a potenza, un Muro insieme concreto e metafisico, da una parte Adam Smith e dall’altra i demoni di Dostoevskij, che Roberto Giardina racconta nel suo ultimo libro. Specchio della storia universale, il Muro di Berlino è la somma d’infinite storie, storie di tutti i possibili formati, piccole e grandi, come nelle Mille e una notte (che è poi il solo «format» possibile se si vuole mettere in scena, senza tralasciare niente e col giusto sbigottimento, la vasta e labirintica complessità del mondo). Nel libro di Giardina troverete lampade magiche, tappeti volanti e Uccelli Roc: la sostanza stessa della seconda metà del Novecento. Ci sono dentro tutti gl’incubi e tutte le meraviglie della guerra fredda. C’è il primo soldato dell’est, «elegante e leggero» come uno degli angeli sopra Berlino di Wim Wenders, che salta al di là del muro in una foto iconica. C’è John Kennedy, che dopo avere provocato guai a non finire in Vietnam e nella Baia dei Porci, prende la parola nei pressi del muro e proclama «Ich bin ein Berliner», sono un berlinese (e c’è la sua ultima fiamma, la crucca dell’Ovest Ellen Rometsch, bellissima, cotonatissima, una «specialista in oral sex» che forse è anche «un’agente della STASI», la famigerata e tentacolare polizia politica della Germania rossa). C’è il segretario generale del PCUS, Nikita Chruščëv, che sbatte la scarpa sullo scranno dell’ONU (un po’ come Stalin, temporibus illis, sbatteva lo stivalone chiodato sul posteriore dei suoi sottoposti e seguaci, Chruščëv compreso, quando voleva sfogare il malumore). Ci sono i berlinesi in fuga attraverso tunnel improvvisati, opera di persone qualsiasi, senza una particolare competenza, e tuttavia funzionanti e operativi, mentre «il tunnel della CIA» (di cui racconta la storia Ian McEwan in Lettera a Berlino, un romanzo del 1990 che ispirerà al regista John Schlesinger il film The Innocent tre anni più tardi) non funzionerà mai. C’è la Swinging London. Ci sono i Beatles che cantano Michelle e gli Stones che cinguettano Lady Jane (canzoni bellissime ma dolciastre, svaniranno dalla scena pop, insieme a tutti i sentimentalismi à la Pat Boone, come peccati da scontare). C’è Markus Wolf, la «masterspy» che ispirerà a John Le Carré il sinistro Karla, boss del «Centro di Mosca» nella Talpa e nei suoi due seguiti, L’onorevole scolaro e Tutti gli uomini di Smiley. C’è Wolf, e ci sono le sue superspie, tra le quali spiccano i «belloni» del dipartimento cuori solitari, specializzati (cito sempre Le Carré) in «trappole al miele»: rubacuori addestrati, seducono e sposano donne che hanno accesso ai segreti di Stato. Non mancano, naturalmente, neppure le «bellone», come per esempio la modella inglese Christine Keeler, che rifischia al suo controllore del KGB le confidenze d’alcova di John Profumo, segretario di Stato per la guerra del governo Macmillan. Ci sono le prime manifestazioni studentesche. Uno studente, Benno Ohnesorg, viene ucciso a Berlino ovest, nell’ombra stessa del Muro, da quello che sembra un poliziotto occidentale che ha perso la testa (ma «oltre quarant’anni dopo, nel 2009», scrive Giardina, si scoprirà che Karl-Heinz Kurras, il poliziotto, era «un informatore della STASI dal 1955», che aveva «ricevuto l’ordine di provocare disordini per destabilizzare l’Ovest» e che «agì come un killer su commissione scegliendo la sua vittima a caso tra la folla dei giovani nella Bismarckstrasse»). Ci sono Olimpiadi e campionati di calcio. C’è la corsa spaziale, vinta dagli Stati Uniti. In Germania, sotto l’ala di Markus Wolf, agisce la Rote Armee Fraktion, o «Banda Baader-Meinhof», che dichiara guerra all’Occidente, in particolare a quella che i terroristi chic considerano il suo peggiore avatar: lo Stato d’Israele (ed ecco che subito risuona un minaccioso «aritanga» nelle due Germanie, entrambe post hitleriane, entrambe con una burocrazia che continua a essere in larga parte quella nazionalsocialista, la stessa burocrazia di Aushwitz e Mauthausen). C’è il Watergate. C’è Woodstock. Ci sono i carri armati a Praga e c’è Solidarność. Giovanni Paolo II, il «papa polacco», agita nell’aria il pastorale come una specie di randello. «Presso Bad Frankenhausen», scrive Giardina, «è stato appena il Panocticum, un cilindro alto 18 metri con un diametro di 44, una sorta di museo per ospitare una sola opera d’arte, la smisurata tela di Werner Tübke, 60 anni, artista ufficiale del regime. Un dipinto su tela lungo 123 metri e steso in circolo: 1772 metri quadrati con oltre tremila figure umane». Cresce (e subito declina) la stella di Mao Zedong, il rock’n’roll perde colpi, il Patto di Varsavia schiera gli euromissili e l’Urss invade l’Afghanistan (due mosse peggio che sbagliate). Tutto avviene a ridosso del Muro di Berlino. Poi Ronald Reagan conquista la Casa Bianca e per il Muro d’un tratto non c’è più aria. «Mr. Gorbačëv, tear down this wall! Abbatta questo muro!» Tempo due anni, e il Muro crollò. Nel libro di Roberto Giardina il Muro è al centro d’una costellazione in cui appaiono tutte queste (e molte altre) storie: le storie del Novecento, di cui si sta perdendo la memoria e che tuttavia sono il fondamento del nuovo millennio. C’è l’ombra del Muro di Berlino – l’ombra della divisione del mondo, di qua l’Occidente (come sempre) e di là (come sempre) un potentato metafisico – dietro il terrore islamista e le idee (tuttora vigenti) di società fondate sui sacrifici umani. Trasmettere alle nuove generazioni, che la conoscono a malapena, non soltanto la storia del Novecento ma la sua dimensione tragica, il contesto ideologico (il nazionalismo e l’internazionalismo, il socialismo e l’homo homini lupus) da cui sono nate tutte le tragedie del nostro tempo, è il compito, se ne ha uno, della moderna cultura occidentale. Servono scuole, ma non le nostre scuole. Servono giornali, ma non questi giornali. Servono editori, ma non quelli che pubblicano esclusivamente libri sciocchi e politicamente corretti. Urge una correzione di rotta perché là fuori c’è ancora una barriera da abbattere. Ancora filo spinato, ancora calcestruzzo. E nessun «Mr. Gorbačëv» da mettere con le spalle al Muro. Diego Gabutti |
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