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Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.11.2019 Odio razzista e antisemita: scorta a Liliana Segre, l'impegno di Spielberg e dei fratelli Dardenne
Cronaca di Gianni Santucci, Andrea Galli, commento di Aldo Grasso, Stefano Giani intervista i registi Jean Pierre e Luc Dardenne

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Gianni Santucci, Andrea Galli - Aldo Grasso - Stefano Giani
Titolo: «Insulti, minacce e messaggi di odio, Liliana Segre ora ha la scorta - Le origini dell’odio razziale, tutte le domande di Spielberg - 'Quelle parole tossiche degli imam e il nostro Ahmed sedotto dall'odio'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/11/2019, a pag. 11 con il titolo "Insulti, minacce e messaggi di odio, Liliana Segre ora ha la scorta", la cronaca di Gianni Santucci, Andrea Galli; a pag. 55, con il titolo "Le origini dell’odio razziale, tutte le domande di Spielberg" l'analisi di Aldo Grasso; dal GIORNALE, a pag. 10, con il titolo 'Quelle parole tossiche degli imam e il nostro Ahmed sedotto dall'odio', l'intervista a Jean Pierre e Luc Dardenne.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Gianni Santucci, Andrea Galli: "Insulti, minacce e messaggi di odio, Liliana Segre ora ha la scorta"

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Liliana Segre in Senato

Da oggi, i carabinieri del Comando provinciale di Milano garantiranno la scorta alla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel gennaio del 1944 dal binario 21 della stazione Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, e sopravvissuta all’Olocausto. La misura di protezione, da tempo sotto esame, è stata disposta nel pomeriggio di ieri, durante il Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e con al tavolo i vertici cittadini delle forze dell’ordine. Tecnicamente, il livello di difesa è una tutela, che prevede la presenza dei carabinieri in ogni spostamento e uscita pubblica della senatrice, contro la quale l’altro ieri Forza Nuova ha esposto uno striscione, nei dintorni del teatro di via Fezzan, a Milano, dove Liliana Segre incontrava assieme a don Gino Rigoldi cinquecento studenti. Proprio l’aumento esponenziale delle minacce, unitamente all’elevato numero di eventi con protagonista la senatrice, che a 89 anni, instancabile, mai si sottrae agli inviti a dibattiti e convegni, ha accelerato la decisione della scorta. Una misura necessaria nei confronti di una donna che, per sua stessa ammissione, attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno duecento messaggi incitanti all’odio razziale. L’origine della campagna di violenza non è di queste ore: risale (almeno) al 2018, quando era stato aperto un fascicolo in Procura sotto il coordinamento del pool antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili, ma è stato l’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a inserire il provvedimento di tutela nelle priorità. Nel corso di un recente seminario allo Iulm, la senatrice, parlando proprio degli haters, aveva detto che «sono persone per cui avere pena e che vanno curate». Del resto, aveva aggiunto, «ogni minuto della nostra vita va goduto e sofferto. Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte e non perdere tempo a scrivere a una 90enne per augurarle la morte. Tanto c’è già la natura che ci pensa». In uno dei suoi ritorni lì dov’era il Binario 21, nel Memoriale della Shoah, Liliana Segre aveva ricordato la cattura, il trasferimento nel carcere di San Vittore, gli ultimi gesti di umanità dal prossimo — poche mele e una piccola sciarpa donate dai detenuti che altro non avevano — , infine la partenza verso la stazione e una lancinante presa di coscienza: quella dei genitori di non poter più proteggere i propri bambini, vista l’impossibilità di fuggire. «Io ero una figlia, e sarò per sempre convinta che non avrei potuto farlo da madre. Mai». Ogni istante trascorso con Liliana Segre, racconta chi le sta vicino, rimane un privilegio raro.

CORRIERE della SERA - Aldo Grasso: "Le origini dell’odio razziale, tutte le domande di Spielberg"

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Aldo Grasso

Qual è l’origine dell’odio umano? Steven Spielberg non poteva porsi domanda più complessa e allo stesso tempo più urgente nel nuovo documentario che firma come produttore esecutivo, Why we hate (letteralmente, Perché odiamo), disponibile sulla piattaforma on-demand di Discovery Italia, Dplay Plus. A garanzia dell’alto profilo del progetto, Spielberg è affiancato da Alex Gibney, sceneggiatore e autore di documentari come Going clear dedicato alla storia di Scientology raccontata da alcuni ex adepti. L’odio razziale, il bullismo, il terrorismo, oltre che la semplice esacerbazione delle reazioni violente nella vita quotidiana rappresentano una delle piaghe della contemporaneità, dagli esiti tragici in termini di vite umane sacrificate. Da dove deriva questo sentimento umano? È possibile in qualche modo porvi rimedio? Quanto i media (in particolare i social) e l’accesso facile alle armi contribuiscono ad amplificare tutto ciò? Lungo il corso di sei puntate, il documentario cerca di trovare delle risposte scegliendo un approccio stratificato, molto ambizioso, che non trascura nessuna sfaccettatura della questione. Prende in esame i genocidi della storia e i reati d’odio contemporanei per metterli in contesto, ma soprattutto s’interroga su quanto all’origine dell’odio possa esserci una dimensione evoluzionistica o legata alla neurobiologia, per capire per esempio se l’odio possa essere una risposta evolutiva della specie umana al suo ambiente, come avviene per gli scimpanzè in Congo. Nella visione di Spielberg, indagare le origini dell’odio è un modo per capire come sradicarle. Nel documentario si raccontano storie esemplari, come quella di una adepta di una chiesa Battista famosa per aver costruito un attivissimo gruppo d’odio, de-radicalizzata grazie a un confronto, partito su Twitter e proseguito nella vita reale, con un esponente della comunità ebraica.

IL GIORNALE - Stefano Giani: 'Quelle parole tossiche degli imam e il nostro Ahmed sedotto dall'odio'

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Jean Pierre e Luc Dardenne

Il giovane Ahmed è un ragazzino che ha ceduto al fanatismo. A una dozzina d'anni bisognerà pur credere in qualcosa e lui aveva un cugino «martire». Parola rischiosa, che oggi non ha lo stesso significato in tutte le lingue. O meglio in tutte le confessioni. E quella di Ahmed era diversa dalla famiglia. Dalla scuola che frequentava. E dall'unica amichetta con cui ha tentato di entrare vanamente in sintonia. Troppo forte il potere di seduzione esercitato da un imam che sembra sovrastare perfino Maometto e il Corano. Catechesi al contrario. È lui a indicargli la strada. Combattere gli apostati a costo di uccidere, siano essi l'insegnante o chissà chi altro. Il Belgio dei giorni nostri potrebbe essere qualsiasi via di qualsiasi città in cui un musulmano vuol seguire la vocazione al martirio. Ed è anche l'asse tematico de L'età giovane di Jean Pierre e Luc Dardenne, premiati a Cannes per la miglior regia, dopo la doppia Palma d'oro per Rosetta nel '99 e L'enfant nel 2005.
Che cos'è l'odio? «È la perdita della consapevolezza che esiste il male - spiega Luc -. Quando ci si ritiene buoni, puri e veri senza ammettere che anche altri lo possano essere, si è portati a uccidere in nome di quei valori di cui ci si ritiene gli unici detentori».
E i cattivi maestri accendono quelle scintille. «L'imam scatena in Ahmed proprio l'istinto alla ribellione - continua Luc -. Lo spinge a rivoltarsi contro la madre, il fratello, l'insegnante. Il modello diventa il kamikaze. Sceglie una vita diversa, fondata sulla violenza più che sull'amore perché ritiene di appartenere a una cerchia ristretta dalla quale tutti sono esclusi perché impuri».
C'è il rischio che il ragazzo diventi un esempio di proselitismo su scala sociale? «Abbiamo visto numerosi Ahmed nelle nostre società. Purtroppo. Sono disposti a uccidere in nome di una visione radicale e radicalizzata della loro religione - aggiunge Jean Pierre -. È innegabile».
Questo accresce la diffidenza? «Non esistono però soltanto integralisti - corregge Jean Pierre -. Fortunatamente. In Francia e in Belgio ci sono ora seconde e terze generazioni islamiche che hanno deciso di non professare. Laici che si stanno spendendo per contrastare il ruolo tossico e nocivo degli imam nelle moschee».
«L'età giovane» può incoraggiare la tolleranza e dissuadere dal fanatismo religioso «Il film va visto attraverso gli occhi della madre - spiega Luc - che, come la maestra, tenta di insegnare l'amore. L'intera vicenda è un'altalena tra estremi. L'amore per la vita e quello per la morte ma credo che a prevalere sia il primo. Ahmed ha tredici anni e forse, se fosse stato più grande, sarebbe stata una tragedia».
Dove emerge questo ottimismo? «Quando si trova in pericolo, il ragazzino chiama la mamma - aggiunge sempre Luc -. Se fosse più avanti d'età non lo avrebbe fatto. Almeno credo. E anche l'insegnante, l'apostata, cessa di essere la nemica giurata che Ahmed voleva uccidere».
Qual è la vostra posizione sulla fede? «È una questione privata. Credo però che la forza delle nostre democrazie - dice Jean Pierre - risieda in una vita sociale e politica dei nostri Paesi non più dettata dalla religione».
Non è esattamente così in Italia, però. E «L'età giovane» esce pochi giorni dopo «Grazie a Dio» di François Ozon che affronta temi dolenti per sacerdoti e fedeli. «Sono stato educato con principi cattolici - confessa Luc - e li ho fatti miei per larga parte della vita. Me ne sono allontanato, pur conoscendone bene la profondità. Oggi mi ritengo ateo».
Che cosa apprezza ancora dell'etica cristiana? «L'uguaglianza delle persone. Un valore bellissimo e condivisibile».
Già, torniamo alla tolleranza. «Una storia lunga. Forse infinita».

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