'Comunisti e riformisti', nella interpretazione di Emanuele Macaluso Commento di Diego Gabutti
Testata: Informazione Corretta Data: 04 novembre 2019 Pagina: 1 Autore: Diego Gabutti Titolo: «'Comunisti e riformisti', di Emanuele Macaluso»
'Comunisti e riformisti', di Emanuele Macaluso Commento di Diego Gabutti
La copertina (Feltrinelli ed.)
Che Palmiro Togliatti, tornato in Italia nel 1944 dopo la lunga e tragica stagione sovietica, abbia sempre agito da riformista, come ricorda Emanuele Macaluso in un suo libro, non significa che fosse tale. Non lo era, come sempre Macaluso dice e non dice nel suo Comunisti e riformisti (Feltrinelli 2013, pp. 138, 14,00 euro). Per il riformismo, che rinunciava ad abbattere il capitalismo e ne diventava anzi la stampella e forse anche il pannolone, Togliatti non nutriva che disprezzo, come tutti i cominternisti della vecchia guardia, qualunque cosa se ne fantastichi adesso. Ma all’epoca il riformismo pagava e la rivoluzione no (tanto più che il tempo passava e a est della Cortina di Ferro, dove il riformismo era impossibile, c’erano rivolte e sommosse). Nell’Italia e nell’Europa del dopoguerra era politicamente più sensato essere Palmiro Togliatti che Pietro Secchia, il dirigente del vecchio Pci più affetto da nostalgia per i colpi di mano e la lotta armata. Come i rivoluzionari, nel primo dopoguerra, avevano tentato la sorte smarcandosi dal «cretinismo parlamentare» dei riformisti, gli stalinisti nel secondo dopoguerra si rassegnarono alla sorte e denunciarono il cretinismo rivoluzionario dell’ala insurrezionalista e partigiana, che soprattutto in Italia aveva basi solide e pessime intenzioni, come fu ampiamente dimostrato dalla sinistra epopea del «triangolo della morte» (l’area nel nord del paese dove alla caduta del fascismo le bande armate comuniste, magari più secchiane che togliattiane ma decisamente anche togliattiane, consumarono vendette contro i fascisti e liquidarono preti, «borghesi», carabinieri e altri «nemici di classe»). Togliatti, allievo di Gramsci più che delle scuole di marxleninismo della polizia segreta sovietica, era devoto alla realpolitik e col pieno appoggio di Baffone, o meglio direttamente su suo mandato come raccontano gli storici senza devozioni togliattiane, scelse la sola via praticabile verso il socialismo, quella pacifica e legalitaria. Ma non fu mai una scelta di campo riformista in senso classico. Fu sempre e soltanto una «via italiana al socialismo». Dove con «socialismo» s’intendeva esattamente quel che intendevano Stalin e i suoi successori, da Kruscev a Breznev a Gorbacev: Gulag, code per il pane, culto della personalità e Ghepeù. Ci fu certamente «doppiezza», ma fu una doppiezza«delle cose», come dicono con sussiego i materialisti. Non c’era semplicemente modo di trasformare l’Italia in una San Pietroburgo che attende dalla nave Aurora il segnale della rivoluzione: il rataplan-plan della mitraglia, poi due colpi di cannone e via, tutti all’assalto del Palazzo d’Inverno. In Italia non c’era altro da fare che seguire la strategia suggerita da Gramsci ai suoi compagni (o meglio «ex compagni», visto che negli ultimi anni, anche qui secondo gli storici disallineati, Gramsci non era più comunista): conquistare la società con l’egemonia detta «culturale», penetrandola in profondità, educandola e rieducandola, rivoltandola dal di dentro fino a trasformarla nel senso del programma socialista. Togliatti fu insomma comunista al punto da capire i vantaggi del riformismo. Non si limitò, tuttavia, a sfruttarli per i suoi fini, ma ne abbracciò proprio la causa, senza ambiguità, solo che il riformismo togliattiano non aveva per obiettivo, come la socialdemocrazia classica, un orizzonte di collaborazione di classe, ma il suo contrario esatto: una politica «classe contro classe» come ai tempi beati dell’Internazionale comunista ma una lotta di classe soft, senza strappi né avventure, e tuttavia sempre con lo stesso progetto da realizzare: l’abbattimento del capitalismo, l’edificazione del «socialismo». Non che Togliatti credesse davvero di poter abbattere lo Stato borghese, come si strillava nei cortei del ’68. Giusto Secchia, Pietro Ingrao e «i dissidenti del Manifesto» potevano prendere per veritieri questi patetici miraggi, ma finse fino all’ultimo di crederci, da quel comunista disciplinato e ossessivo che era. Ha infine ragione Macaluso quando dice che c’era più «doppiezza» tra i militanti di base che negli organi dirigenti del partito. Anche di questo profittò il Migliore. Come tutti i grandi demagoghi sfruttò la mentalità tribale degl’italiani, che tuttora si dividono in curva sud e curva nord della politica, a destra gl’impresentabili, a sinistra gli antropologicamente superiori. Nel mezzo i demagoghi, da Mussolini a Grillo, da Togliatti a Berlusconi, che tirano i fili, senza particolare abilità, dell’eterna burattinata italiana.