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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.11.2019 Alberto Sed, Stefano Gaj Taché: vittime di due volti diversi e uguali dell'antisemitismo
Commento di Francesca Paci, intervista di Fabrizio Peronaci

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Francesca Paci - Fabrizio Peronaci
Titolo: «L'Inferno vissuto da Alberto Sed: 'Fa impallidire quello di Dante' - 1982, attacco alla Sinagoga: 'Il mio piccolo Stefano e il dovere della memoria'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/11/2019, a pag.27 con il titolo "L'Inferno vissuto da Alberto Sed: 'Fa impallidire quello di Dante' ", la cronaca di Francesca Paci; dal CORRIERE della SERA - Roma, a pag. 1, con il titolo "1982, attacco alla Sinagoga: 'Il mio piccolo Stefano e il dovere della memoria' ", l'intervista di Fabrizio Peronaci.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Francesca Paci: "L'Inferno vissuto da Alberto Sed: 'Fa impallidire quello di Dante' "

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Francesca Paci

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Alberto Sed

Chiedeva sempre d'incontrare i bambini, Alberto Sed, a chi lo andava a trovare nel suo appartamento romano dove, in una speciale stanza dei ricordi, custodiva le foto in bianco e nero del ritorno alla vita, un quadernone su cui annotare in bella calligrafia i nomi degli ospiti, le lettere e i biglietti di auguri degli studenti che, da quando nel 2006 aveva deciso di raccontare il passato, erano diventati gli amici del futuro. Uno degli ultimi sopravvissuti al lager di Auschwitz se ne va così, tenendo per mano il passato e il futuro, una catena allacciata con fatica ma anche con la consapevolezza di una caducità in agguato, l'oblio sempre più minaccioso sulla memoria dell'Olocausto man mano che i testimoni si spengono, uno dopo l'altro. «Io, come tanti, ero rimasto zitto per tutta la vita perché sapevo che parlare significava non essere capiti e magari finire al manicomio o da uno psichiatra a farsi imbottire di pillole. Nonostante le leggi razziali mi abbiano precluso gli studi ho fatto in tempo a leggere la Divina Commedia e dico che se Dante aveva intuito bene il Purgatorio e il Paradiso, sull'Inferno si è sbagliato per difetto, perché l'Inferno è quello che ho vissuto io a 15 anni. Incredibile dall'esterno. Meglio il silenzio». Le parole di Alberto restano nelle orecchie di chi le ha ascoltate sul divano accanto a questo signore sempre rasato a puntino e in abito chiaro con la cravatta, cura e cortesia d'altri tempi. Le porte dell'inferno si chiudono adesso come gli occhi di Alberto Sed, 91 anni e l'energia compressa del bambino interrotto come i binari all'ingresso di Auschwitz-Birkenau. Abbiamo però ancora la storia che, senza tregua, anche quando i movimenti diventavano più ardui e l'udito lo abbandonava, ha continuato a raccontare nelle scuole, con quel marcato accento romanesco con cui ammetteva che, pur essendo uno sfegatato tifoso giallorosso, aveva abbandonato lo stadio dopo la comparsa degli striscioni antisemiti. «Gli antisemiti sono i primi a sapere quello che è successo, lo sanno meglio degli altri, per questo si affannano tanto. Ho visto Auschwitz ma paradossalmente era come stare in villeggiatura rispetto a quello che mi sarebbe capitato dopo, la marcia della morte, il lavoro nella miniera così devastante da farmi improvvisare pugile e combattere per il divertimento dei miei carnefici, il ritorno alla vita con i fantasmi di Auschwitz, la perdita di Fatina». Fatina per Alberto era il paradigma del dolore, un ricordo da rivivere per punirsi di essere vivo. Fatina, la sorella adorata che accompagna l'Inferno fino alla fine, che ritrova il fratello in una Roma devastata dalla guerra ma bramosa di ripartire, che si rimette in marcia insieme a lui ma che non ce la fa, arranca, non riesce a cancellare il laboratorio di Mengele, le ceneri della madre e della sorella Emma disperse nel vento, le urla dell'altra sorella, Angelica, fatta sbranare dai cani davanti ai suoi occhi. Fatina che alla fine molla, si ammala, non mangia più e pian piano se ne va lasciando Alberto nell'abisso, in attesa di Godot. «Durò ancora un po', un giorno rispondendo ai richiami di mia moglie alzò la voce dicendo "Non hai capito che voglio andare via da Auschwitz? E portate via pure mio fratello". La ricoverammo in un istituto di suore e un giorno mentre eravamo tutti intorno a lei mi chiamò per dirmi addio, si era lasciata morire». Piangeva piano Alberto rivelando il suo incubo peggiore durante la stesura dell'ebook pubblicato dalla Stampa nel 2004, Se chiudo gli occhi muoio. Diceva che l'aveva uccisa, proprio così. Dopo Fatina era cambiato tutto, ancora una volta, come quando il mondo si era capovolto all'avvento delle leggi razziali. Come allora, peggio, Orfeo incapace di salvare la sua Euridice dall'Inferno. «Ricordate ogni parola, parlate ai bambini, se smettete saremo davvero morti tutti» ripeteva ancora il 25 aprile scorso, alle Fosse Ardeatine, l'uomo che dopo Auschwitz non era più riuscito a tenere in braccio un bambino, neppure i suoi. È quanto ci ha lasciato, ai piccoli ma soprattutto ai grandi.

CORRIERE della SERA - Fabrizio Peronaci: "1982, attacco alla Sinagoga: 'Il mio piccolo Stefano e il dovere della memoria' "

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Stefano Gaj Taché - la madre Daniela


Signora, in queste ore la politica si divide sulla commissione contro l'antisemitismo proposta dalla senatrice Segre. Se la sente di tornare a quel giorno? Chiuda gli occhi: sono le 11.55 del 9 ottobre 1982. Cosa vede? «Vedo tanta gente, gli amici di sempre con cui siamo appena usciti dal Tempio e soprattutto vedo i mici due bambini vestiti a festa. Bellissimi, vestiti uguali come faccio spesso. Ad un tratto tutto finisce... Capisco e grido: "Non voglio morire!" Mi arriva qualcosa in testa, cado a terra. Penso a un sasso, ma subito mi rendo conto che si tratta di una bomba a mano miracolosamente inesplosa. Ho schegge in tutto il corpo... Non sono morta nel fisico, ma moralmente, psicologicamente sì... Gran parte del mio cuore ha cessato di battere quel giorno». La signora Daniela è la mamma di Stefano Gaj Tachè, «vittima del terrorismo a soli due anni». La targa stradale a lui intitolata, inaugurata nel 2007, si trova nello slargo tra via del Tempio e via Catalana, al lato della Sinagoga di Roma. Quello splendido bimbetto dagli occhi grandi e nerissimi morì, con il corpicino dilaniato, nell'attentato di 37 anni fa, rimasto il più grave atto antisemita avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra. Bombe a frammentazione e mitra alla mano, un commando di palestinesi seminò orrore e morte al termine della festa di Sukkot, dedicata dagli ebrei al ringraziamento e alla gioia interiore. Donna forte, Daniela. Ma quella ferita sanguina ancora. Suo marito Joseph partecipò ai funerali con una mano fasciata: quando un medico del Fatebenefratelli gli disse che il figlio era morto, scagliò un pugno contro la vetrata, per tentare di contenere la rabbia.
Lei non poté partecipare alle esequie del suo bambino, perché gravemente ferita, come altre 36 persone. Cos'altro ricorda? «Dopo l'esplosione, sentii delle mani amiche che mi spingevano in una macchina. Persi conoscenza. Mi svegliai in ospedale, dove chiesi subito dei miei bambini. Riuscii a vedere la piccola bara bianca che usciva dall'ospedale, affacciandomi dal terrazzino del Fatebenefratelli. Ero controllata e tenuta fisicamente dai medici, che temevano una mia reazione».
Per due anni lo ha accudito, tenuto, in braccio, amato. Che genere di ragazzo sarebbe diventato Stefano? «Mi hanno privato della gioia di vederlo crescere, ma sono sicura che sarebbe stato un bel ragazzo, simpatico, intelligente, generoso... Già così piccolo era portato per le lingue. Non so, forse si sarebbe laureato... Non posso sapere che lavoro avrebbe scelto, ma di certo mi avrebbe resa orgogliosa. Stefano era vita, simpatia, meraviglia. Un figlio dolcissimo».
Come sono stati i primi tempi senza il piccolo? «Terribili. Ero una giovane madre, fiera dei suoi figli. Mi è stato tolto quanto di più caro avessi. Un gioiello di valore inestimabile... il mio piccolo».
Cosa le ha dato forza? «La forza di andare avanti me l'ha data il primogenito, Gadiel. Le cure di cui aveva bisogno e la consapevolezza che avrei dovuto essere una madre attenta, vigile e forte».
Cosa cambiò l'attentato nella sua e nella vostra vita? «Tutto. Ogni volta che tomo nella Sinagoga rivivo quel terribile giorno. Mi guardo attorno esaminando con attenzione ogni volto che mi circonda. Provo paura, ma non smetto di andarci. Le nostre tradizioni le porto avanti. Naturalmente con Stefano sempre nella mente e nel cuore».
Gadiel, nella ricorrenza dei 3o anni, nel 2012, vinse la timidezza e parlò pubblicamente del vostro dolore, davanti al presidente Napolitano. Poi fu felice, disse, di essere riuscito ad affermare i valori della memoria e della testimonianza civile. «Sono fiera di quello che Gadiel ha fatto e continua a fare. Lui trovò la forza di affrontare questa storia quando si rese conto che l'opinione pubblica aveva dimenticato l'attentato alla Sinagoga. Una pagina trascurata nelle scuole e dai libri di storia, purtroppo. I giovani ignorano ciò che accadde. Gadiel si fece carico di ricordare a questo Paese che nel 1982 un bambino italiano, ancora una volta, fu ucciso nel cuore dell'Italia solo perché ebreo. L'effetto più importante dello sforzo di Gadiel fu il discorso che il presidente Sergio Mattarella fece nel suo discorso di inizio mandato».
Era il 3 febbraio 2015. Suo figlio fu l'unica vittima del terrorismo citata dal capo dello Stato. «Ringrazio ancora il presidente. Le sue parole furono: "Era un nostro bambino, un bambino italiano". Le custodisco nel cuore».
Qual è stato, dopo la tragedia, il suo rapporto con Roma? «Roma è stata, è e sempre sarà la mia città. L'attentato in qualche modo ha avvicinato la comunità ebraica alla città. Non da subito, ma col tempo, il rapporto con le istituzioni romane si è rafforzato».
II cammino verso la pace, in quasi 40 anni, ha dato risultati concreti. Sul fronte del terrorismo, passeggiando al Portico d'Ottava, dovremmo stare più tranquilli, non trova? O potrebbe accadere di nuovo? «Ormai siamo abituati a vedere polizia e carabinieri davanti al Tempio, che controllano tutta la zona. Sarebbe bello non averne bisogno. Purtroppo l'unica volta che non furono presenti, il Tempio fu attaccato in quel modo... Quindi sì, oggi siamo più protetti. Ne approfitto per ringraziare di cuore le forze dell'ordine e i tanti padri e madri di famiglia che garantiscono la sorveglianza per spirito di volontariato. Ma purtroppo non sono così sicura che non possa accadere di nuovo. L'attenzione siamo costretti a tenerla molto alta».
Cosa pensa delle polemiche di questi giorni sulla commissione Segre? «Pur condividendo la necessità della formazione di una commissione in tal senso, non vorrei alimentare una polemica e la strumentalizzazione di un argomento come l'antisemitismo, che dovrebbe appartenere a valori universali di tutte le forze politiche, di destra e sinistra, e della nostra democrazia».
Torni a chiudere gli occhi: che immagine le resta del piccolo Stefano? «Un bambino felice, dolce e sorridente, a cui è stato negato di crescere nella sua famiglia, soprattutto accanto a suo fratello, con cui avrebbe potuto dividere una vita normale».

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