Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 31/10/2019, a pag.13 con il titolo "Schiaffo Usa alla Turchia: 'Genocidio degli armeni'. L'ira di Erdogan: reagiremo" il commento di Giordano Stabile; da LIBERO, a pag. 13, l'articolo "L'anti-Trump velata vota come piace a Erdogan" di Carlo Nicolato; dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, con il titolo 'Noi, nipoti dei sopravvissuti e il dolore che non passa' l'analisi di Antonia Arslan.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "Schiaffo Usa alla Turchia: 'Genocidio degli armeni'. L'ira di Erdogan: reagiremo"
Giordano Stabile
La crisi aperta dall'assalto ai curdi nella Siria nord-orientale era stata appena disinnescata e subito se ne è aperta una nuova fra Turchia e Stati Uniti. A scatenare la rabbia di Erdogan, questa volta, è la decisione della Camera dei rappresentanti americana di riconoscere il genocidio armeno. È un passo che era stato rinviato per 35 anni, per il timore di una rottura con l'alleato Nato. Ma l'invasione del Rojava, l'uccisione dell'attivista curda Hevrin Khalaf da parte delle milizie arabo-sunnite alleate di Ankara, i rapporti sempre più stretti con la Russia, hanno spinto i deputati a un voto bipartisan, a schiacciante maggioranza, 403 a 16. L'uccisione di un milione e mezzo di armeni, una delle principali minoranze cristiane nell'allora Impero ottomano, è ora accostata dall'America al genocidio degli ebrei, o a quello dei Tutsi in Ruanda. E questo è inaccettabile dalla Turchia. La replica è stata immediata, l'ambasciatore statunitense ad Ankara, David Satterfield, è stato convocato dal ministero degli Esteri. Poi, nel pomeriggio, è arrivata la replica di Erdogan. Il voto della Camera, ha puntualizzato il presidente turco, «non ha alcun valore» e ha chiesto alla Casa Bianca di rigettarla. Erdogan ha poi alluso a una possibile cancellazione della visita a Washington del 13 novembre: «Non ho ancora preso una decisione – ha spiegato -, ci sono punti interrogativi». In realtà i rapporti con Donald Trump sono migliorati, dopo che il leader Usa ha deciso di ritirare le sanzioni imposte in seguito all'offensiva militare nel Nord-Est della Siria. Ieri la Camera ha anche approvato una legge che chiede al presidente di reintrodurle. Erdogan ha infine ottenuto la sua fascia di sicurezza e il ritiro dei guerriglieri curdi delle Ypg. Ma con l'aiuto di Putin. Ieri ha anche ribadito che è pronto ad allargare la fascia. In realtà lo sta già facendo. I combattenti arabo-sunniti hanno continuato l'offensiva, questa volta contro l'esercito governativo siriano che ha sostituito i curdi ai margini della zona cuscinetto. Ci sono stati scontri a Tall Tamer. Migliaia di curdi e di cristiani sono fuggiti fra nuvole di fumo per le esplosioni, nel timore che arrivassero i miliziani. Il voto della Camera Usa sul genocidio armeno è stato accolto con soddisfazione in questa regione della Siria. Parte dei massacri, delle deportazioni, si sono svolti nel Nord-Est siriano, dove c'è ancora una piccola comunità armena. E ora l'avanzata turca minaccia non solo i curdi, ma anche armeni e i cristiano-siriaci. Tutte minoranze solidali fra loro. E i timori si riaccendono: «Non vorremmo che nel 2119 l'America si ritrovi ad approvare un'altra risoluzione, per riconoscere un nuovo genocidio, compiuto in questi giorni».
LIBERO - Carlo Nicolato: "L'anti-Trump velata vota come piace a Erdogan"
Donald Trump, Ilhan Omar
Il Congresso americano ha finalmente votato una risoluzione che riconosce per la prima volta e senza giri di parole il genocidio armeno messo in atto dai turchi tra il 1915 e il 1917. La decisione, votata con la quasi unanimità, 405 su 435, e quindi con coinvolgimento bipartisan, è arrivata dopo l'invasione turca in territorio siriano ai danni dei curdi e a sole due settimane dalla visita del presidente Erdogan a Washington. Ha valore prettamente simbolico e l'America è solo il 30° Paese che si allinea a quanti hanno già riconosciuto la strage, Italia compresa, ma la risoluzione suona come un chiaro avviso al presidente turco che ora sta prendendo in considerazione di non andare a Washington rischiando di scavarsi la fossa da solo. Peraltro i deputati americani hanno anche votato un'altra risoluzione in cui si chiede al presidente Trump di imporre ulteriori sanzioni e restrizioni ai vertici dello Stato turco. La reazione di Ankara è stata per la verità piuttosto ondivaga, con il capo della diplomazia turca Cavusoglu che da una parte ha definito la risoluzione «un passo politico insignificante indirizzato solo alla lobby armena e ai gruppi anti-Turchia» e dall'altra ha sottolineato come si tratti di un provvedimento non consono all'alleanza tra i due Paesi nella Nato e all'accordo di tregua in Siria appena stipulato.
AMBASCIATORE CONVOCATO Da parte sua Erdogan ha convocato l'ambasciatore americano ad Ankara David Satterfield e ha sottolineato che tale accusa, il genocidio «è il più grande insulto al nostro popolo» in quanto «la nostra fede non lo permette». Un punto di vista che sembra aver impressionato anche uno dei pochi deputati americani che si è rifiutato di votare la risoluzione, cioè la rappresentante Democratica Ilhan Omar, di origini somale e una delle prime donne musulmane a servire per il Congresso americano.
«PRESENT» La Omar ha votato "present", cioè si è astenuta facendo presente che «la responsabilità e il riconoscimento del genocidio non dovrebbero essere usati come un randello nella lotta politica», ma che tale voto «dovrebbe arrivare tramite il consenso accademico al di fuori della spinta della geopolitica». La discussa rappresentante del Congresso, che peraltro un paio di anni fa ha incontrato lo stesso Erdogan a New York, ha sottolineato che «un vero riconoscimento dovrebbe includere sia i genocidi atroci del XX secolo, sia i massacri di massa precedenti come il commercio di schiavi transatlantici e il genocidio dei nativi americani». La Omar forse dimentica che l'America che egli rappresenta non ha mai negato lo schiavismo, anzi ha fatto perfino una guerra civile sulla questione, e più di una volta Washington ha chiesto scusa ai neri e ai nativi americani. Quanto alla condanna del genocidio armeno la risoluzione è arrivata a 11 anni di distanza dalla promessa elettorale di Obama mai mantenuta. Trump invece ha mantenuto la parola: nell'aprile 2017, pochi mesi dopo l'insediamento alla Casa Bianca, aveva definito il massacro degli armeni nel 1915 «una delle peggiori atrocità di massa del XX secolo».
CORRIERE della SERA - Antonia Arslan: 'Noi, nipoti dei sopravvissuti e il dolore che non passa'
Antonia Arslan
Ultima domenica di aprile, anno 2005, Times Square, New York. Una pioggerellina fitta e noiosa scendeva sulle cinquemila persone radunate ordinatamente intorno a un palco pavesato di bandiere rosso-blu-arancione, i colori della Repubblica d’Armenia. Sul palco, due sedie, un paio di microfoni, due persone che si davano da fare coi fili e uno schermo. Io arrivai puntuale, per assistere alla cerimonia che ogni anno si svolge nella famosa piazza, cuore pulsante della metropoli, per commemorare l’inizio del genocidio armeno, la «grande retata» che iniziò il 24 aprile 1915, e che in tre giorni portò via dalle loro case nella capitale Costantinopoli tutta l’élite della minoranza armena all’interno dell’Impero Ottomano. Gli interventi si susseguirono, portando il ricordo e la partecipazione di uomini politici americani, leader religiosi, armeni della diaspora e della madrepatria, icone del coraggio degli armeni come Charles Aznavour, e la folla si riscaldava sempre di più, man mano che venivano citati i nomi delle regioni perdute dell’Anatolia Orientale: Van, Erzerum, Mush, Kharpert, come luoghi della sofferenza di un’intera nazione sui quali era calata la coltre di un pesante oblio. Quando toccò a me, salii sul palco preparata a dire qualche frase di memoria e di amicizia, ricordando la mia appartenenza all’esigua comunità degli armeni d’Italia. Presi in mano il microfono e guardai giù, verso la folla. Ma allora mi accorsi che in prima fila sotto il palco, ciascuno seduto nella sua carrozzella guidata da un giovane, c’erano gli ultimi sopravvissuti. Uomini e donne che orgogliosamente si tenevano diritti, e ciascuno reggeva una bandierina e un cartello col nome del paese da cui proveniva. Nomi che evocavano un’antica civiltà scomparsa nel fuoco e nel sangue da novant’anni, la cui memoria reale era conservata dai quei vecchi visi con le palpebre pesanti e lo sguardo affaticato. Guardandoli negli occhi, io dimenticai le frasi che avevo preparato. Vedevo solo loro, e parlai a loro, trasmettendo l’emozione che mi aveva preso e il bisogno di abbracciarli, così esili e antichi nelle loro carrozzelle. E quando finii scesi dal palco e andai da loro, stringendo mani e chiedendo notizie, finché arrivai presso l’ultimo, che sembrava il più vecchio e veniva dal paese di mio nonno. Ma lui rifiutò la mia stretta di mano, mi guardò un po’ torvo e disse: «Ho 98 anni. Avevo otto anni quando tutto è successo, e mi ricordo tutto. Ogni anno mi portano a Washington e qualche personaggio importante mi dice che bisogna avere pazienza, che non è ancora il momento. Ma qual è il momento per la giustizia? Quanto pensano che io possa resistere? Io non potrò aspettare ancora a lungo...». Come uno schiaffo mi colpirono le sue parole. Capii improvvisamente che un genocidio non consiste solo negli eventi terribili del momento in cui è perpetrato, nel sangue e nelle violenze che mirano a distruggere un popolo intero; prosegue col negazionismo. Negazionismo: non sono solo parole, sono atti ben precisi, calcolati e studiati per spargere sale su ferite appena rimarginate, per creare confusione in menti abitate dal ricordo di violenze inaudite che vengono minimizzate o negate, col preciso scopo di venire infine dimenticate. Per gli armeni, ci fu una logica perversa in questo meccanismo diabolico, che li schiacciò. Dopo il trattato di Losanna del 1923, con la complicità delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, la stessa parola «armeni» scomparve, le centinaia di testimonianze pubblicate fra il 1915 e il 1921 furono consegnate all’oblio, i monumenti sparsi nell’intera Anatolia distrutti, i nomi dei luoghi cambiati. Le ombre del popolo perduto vagavano invano per l’Armenia storica, nessuno le vedeva... Ed è solo con noi, i nipoti di terza e quarta generazione, che un po’ alla volta la memoria è stata ristabilita. Passo dopo passo la realtà della piccola Armenia del Caucaso, tornata indipendente dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si è imposta come una nazione fra le altre, e si è ricominciato a parlare e a discutere del genocidio. Questa parola fu coniata dall’ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944, come testimoniò lui stesso in una celebre intervista televisiva, pensando agli armeni — della cui tragedia si occupava da vent’anni — prima che agli ebrei. Molti parlamenti, uno dopo l’altro, hanno cominciato a riconoscere il genocidio degli armeni: e ieri è stato il momento della Camera degli Stati Uniti. È un atto che diffonde una verità storica, non ha conseguenze pratiche: e vorrebbe aiutare il popolo turco ad affrontare finalmente questo immenso «scheletro nell’armadio» che avvelena il Paese e lo priva della sua stessa memoria, come ha scritto molto bene Hasan Djemal, nipote di uno dei maggiori responsabili della tragedia, che ha scritto un commovente libro sull’argomento.
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