Alain Finkielkraut: 'Quale ruolo oggi per l'Europa?' L'analisi tratta da Valeurs Actuelles
Testata: Il Foglio Data: 28 ottobre 2019 Pagina: 2 Autore: Titolo: «'L’Europa merita tutta la nostra cura'»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 28/10/2019, a pag.II, l'articolo 'L’Europa merita tutta la nostra cura', tratto da Valeurs Actuelles.
Alain Finkielkraut
In occasione dell’uscita della sua ultima opera, il filosofo Alain Finkielkraut si è confidato con la redazione di Valeurs Actuelles. Cosa ne pensa degli appelli a silenziare Zemmour lanciati dai sindacati dei giornalisti? Lei stesso, specialmente da produttore del programma “Répliques” su France Culture, che tipo di pressioni subisce? “Un tempo, i giornalisti difendevano la libertà d’espressione contro le ingerenze dello stato; oggi invece sono i giornalisti che reclamano la censura. Come ha scritto Renaud Camus, che ne sa qualcosa: ‘Ah, dove sono finiti i bei tempi della stampa imbavagliata? Era pur sempre meglio della stampa che oggi imbavaglia!’. Le liste nere delle persone infrequentabili proliferano dal 2002, ossia dalla pubblicazione del libello commissionato a Daniel Lindenberg da Pierre Rosanvallon: ‘Le Rappel à l’ordre: enquête sur les nouveaux réactionnaires’. Nella sua ‘Histoire intellectuelle et politique, 1968-2018’, in cui riesce nell’impresa di dimenticare l’11 settembre e gli attentati islamisti di Parigi nel 2015, Pierre Rosanvallon giudica l’opera di Lindenberg ‘premonitrice’. E’ per questo motivo, probabilmente, che non mi ha dato una risposta positiva quando l’avevo invitato a partecipare a ‘Répliques’. Non voleva essere disturbato, voleva continuare in pace a non vedere ciò che sta accadendo. Tuttavia, questo episodio resta un’eccezione: nonostante l’irrigidimento della vita intellettuale, e grazie al pieno sostegno della mia direzione, riesco, o almeno credo, a fare un programma pluralista; non dico ovviamente tutto ciò che mi passa per la testa, perché non è conforme all’idea che mi faccio della parola pubblica, ma non mi censuroz”. Però lei è regolarmente attaccato. Pensa che ci sia un’isterizzazione del dibattito, e in caso affermativo, come lo spiega? “ Lo testimonia l’inflazione del termine reazionario: è un termine fazioso, polemico, che mira a screditare quelli che sono additati come tali. Sapremo dividerci solo se ammetteremo di essere tutti contemporanei, e visibilmente è molto difficile oggi”. Come valuta il modo in cui è stato trattato il recente attentato che ha funestato la Francia, nel cuore della prefettura di polizia di Parigi? “Il giorno dopo l’attentato, il giornalista Jean-Michel Aphatie ha scritto che per garantire una migliore integrazione dei musulmani di Francia, bisognava imperativamente modificare la legge del 1905 (…). Mickaël Harpon non ha subito nessuna discriminazione per il suo colore di pelle, per il suo handicap e per la sua conversione all’islam: lavorava nel sancta sanctorum della polizia, era un funzionario amministrativo abilitato ad accedere a documenti e atti coperti dal ‘segreto di stato’. Eppure, ‘ha rinnegato sé stesso’, secondo il vocabolario salafita della società francese, al punto da assassinare quattro persone in nome di Allah. Si rimprovera al ministro dell’Interno Christophe Castaner di aver detto, poche ore dopo l’attentato, che l’assassino non aveva presentato difficoltà comportamentali e non era mai stato oggetto di segnalazioni. Ma è proprio quello che l’opi - nione pubblica voleva sentire. Non bisogna mai stancarsi di ripetere la frase di Salman Rushdie: ‘Si stava producendo qualcosa di nuovo, l’ascesa di una nuova intolleranza. Si diffondeva sulla superficie della terra, ma nessuno voleva riconoscerlo. Una nuova parola era stata inventata per permettere ai ciechi di restare ciechi: islamofobia’. Quando Emmanuel Macron parla di ‘idra islamista’, ci invita a non lasciarci intimidire da questo termine. Ma nel Libé des historiens di questa settimana, c’era un articolo dedicato al suo appello alla vigilanza che denunciava, con precedenti a sostegno, questa ventata paranoica. La battaglia è ben lungi dall’essere vinta”. Per restare sulla “società della vigilanza” reclamata da Emmanuel Macron, secondo lei sarà necessario accettare di discriminare per proteggersi? “Non sarà mai una discriminazione. Ci si dovrà premunire contro il peggio, individuando i comportamenti in contrasto con i nostri costumi e i nostri principi. Tuttavia, sarà molto difficile, perché siamo arrivati alla fase della banalizzazione della radicalizzazione. Non tutti passano all’azione, ma come ha detto Élisabeth Badinter, ‘una seconda società tenta di imporsi insidiosamente all’interno della nostra Repubblica, voltandole le spalle e puntando esplicitamente al separatismo, o peggio alla secessione’. Ho sotto gli occhi un articolo del Monde molto significativo sulla moschea che frequentava Mickaël Harpon. Si sa che l’imam di questa moschea è salafita, violento, antisemita e che era stato cacciato dalla moschea di Sarcelles per tutte queste ragioni. Ma il giornalista scrive: ‘La moschea del quartiere della Fauconnière, tuttavia, non era considerata come un luogo particolarmente a rischio, alla luce della banalizzazione del salafismo nella banlieue parigina’. E’ il Monde che parla: non ho altro da aggiungere”. Nel suo libro, lei scrive: “La denuncia solenne dell’antisemitismo di ieri e la volontà di trarne degli insegnamenti spiana la strada all’antisemitismo che viene”. Come spiega questo accecamento dinanzi al nuovo antisemitismo? “Se la stampa o una parte di essa vuole imbavagliare Zemmour, e con lui tutti quelli che non pensano che la Francia sia ‘un vecchio paese di immigrazione, ricco grazie alla sua diversità’, è perché l’islamofobia, stando a quello che vogliono far credere, svolge oggi il ruolo che un tempo era dell’antisemitismo, e la memoria ordina la massima fermezza dinanzi a questo nuovo razzismo. Questa analogia tra me e Maurras o tra Zemmour e Drumont esclude la realtà, nonostante sia flagrante, dell’antisemitismo arabo-musulmano. L’individuo che in occasione di una manifestazione dei gilet gialli mi ha dato della ‘sporca merda sionista’, intimandomi di tornare a Tel-Aviv, non apparteneva all’universo fascista, non assomigliava ai manifestanti descritti da Audiberti che, all’indomani della firma degli accordi di Monaco, sfilavano sugli Champs Élysées urlando in faccia ad alcuni: ‘Andate a fanculo! Schifosi! Tornate a Gerusalemme!’. Il mio aggressore non gridava ‘la Francia ai francesi’, ma ‘la Francia è nostra’, agitando la sua kefiah”. Veniamo a Greta Thunberg. Su Causeur, lei ha scritto che l’ecologismo è diventato il più grande produttore di prediche, tanto noiose quanto colpevolizzanti. “Non ho nulla contra Greta Thunberg. Questa povera ragazzina è la vittima della manipolazione dei suoi genitori, del sistema mediatico e della stupidità degli adulti che l’hanno resa, per sua sfortuna, un’icona planetaria. L’infanzia e l’adolescenza sono per eccellenza i periodi del semplicismo, della malleabilità e dell’estasi manichea. L’urgenza ecologica richiede conoscenza, senso della complessità e attaccamento alla bellezza del mondo”. Un giorno lei ha detto che il difetto costitutivo dell’Unione europea è di aver costruito un’Europa priva di contenuto e di cultura; allo stesso modo, molte persone oggi considerano la politica non come portatrice di un progetto ma semplicemente come uno strumento per non scontrarsi l’uno con l’altro… “Non credo che l’uscita dall’Unione europea sia una soluzione; ciò che bisogna imperativamente ricordare all’Europa è che non è definita esclusivamente dai valori, ma anche dalle cose, dalle opere, dalle piazze, dai monumenti, dagli edifici, dai costumi, da una certa maniera di essere e di sentire… Insomma non è solamente una costruzione, ma una civiltà, e questa civiltà merita tutte le nostre cure”. Come si può coniugare l’identità nazionale e l’identità europea? “Ai miei occhi, questa coniugazione va da sé. Ho sempre in testa un articolo di Milan Kundera, ‘Un occidente sequestrato ovvero la Tragedia dell’Europa centrale’. L’articolo comincia così: il direttore dell’agenzia di stampa di Budapest, invasa dai carri armati sovietici, invia un telescritto nel mondo intero con questo testo: ‘Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa’. L’Europa è il massimo di diversità nel minimo spazio; la nazione è una creazione europea. Credo che le due cose vadano di pari passo; ecco perché, a differenza dei sovranisti, non oppongo la nazione all’Europa, anche se lo stato attuale dell’Unione europea mi ispira sentimenti contrastanti”. Una parola a guisa di conclusione sul suo pessimismo. Alla fine della sua opera, lei osserva che, sebbene rimangano alcuni traghettatori della civiltà europea, sono i suoi liquidatori a trionfare, e che, dinanzi all’islamismo, il nichilismo egualitario occidentale ha poche possibilità di trionfare. Con queste parole ci sta dicendo che in materia di educazione forse è troppo tardi… “Sì, forse è troppo tardi, perché un certo numero di professori che oggi si trovano nelle scuole è il prodotto dell’insegnamento dell’ignoranza. Certo, conosco degli ussari neri, dei professori devoti, esigenti, innamorati dei grandi testi e della trasmissione del sapere, ma spesso la frequentazione delle sale insegnanti è scoraggiante, perché viene detto loro che il dettato è reazionario, per esempio, e che anche il divieto di utilizzare il telefono a scuola è reazionario! E’ per queste ragioni, in effetti, che non mi sento molto ottimista. Ma la responsabilità di un intellettuale è quella di lanciare l’allarme, e allo stesso tempo di aprire delle finestre di speranza… Penso si debba continuare a combattere delle battaglie di retroguardia; è la sola maniera per preparare un futuro migliore”.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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